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Giuliano Mesa.

Tre poesie da Chissà, gli Appunti, un estratto dalla postfazione di Guido Caserza a Quattro Quaderni e una serie di proposte di lettura dai blog La dimora del tempo sospeso, Nazione Indiana, Guardareleggere, Punto critico

Da Chissà (d’if, Napoli, 2002)

capiscono che cosa, le bacche, le galle,

copiate su di un trespolo, che fa recinto,

crepitando, crosta cocciuta che si forma,

che fa bagliore, bruca l’ossigeno.

sarà come deve essere, umida o secca,

secondo che sia giorno, caldo,

o la notte piovosa, fino all’alba.

anche la siccità, il monsone.

così come dev’essere,

il posto dove si posa, quella stanca,

guancia, la nuca, la tempia,

crinale tra la pelle che residua,

crosta, così come sarà

*

andrà a finire. e se non ora,

o quando, sarà come se fosse,

dentro un pensiero, trito,

che si sgranocchia la sua noce.

l’improvviso schiarirsi,

o lo snodarsi, o altro che già c’è.

finirà che se ne andranno tutti,

i giunchi sferzati dalla bora,

le folaghe smarrite, i rantoli,

quelli dei ratti che fanno tana tra i rottami,

sgranocchiano croccanti cartilagini.

andrà a finire anche così,

o anche chissà come,

anche come se fosse chissà che

*

non so, da quale notte, scura,

da quali passi, lenti,

ognuno che batte sulla sabbia,

che cerca, scuro, dove posarsi dopo.

Sassi conchiglie sabbia, dopo,

acqua che fa l’impasto, terra,

grani di sale, tagliano,

strinano l’aria intorno, l’aria,

che risuona, il vento che la muove,

tra le palpebre, chiuse, che si aprono,

tra le mani, le dita, le dita che si schiudono,

ancora la pelle, tesa, che si tende,

i lobi, le palpebre, il sale che le strina,

le labbra, non so, la voce tra le labbra,

non so, che parla, so che parla,

so che parla

*

Appunti

 

quattro quartetti

 

un arbitrio, una volontà, nefasta, di monumento un’epidermide artificiale su un corpo scorticato (un argine al vaniloquio, un nulla che protegge un altro nulla)

un altro passo ancora, un altro passare (nessuna preghiera, nessun perdono: un’imprecazione, una condanna) (un niente che cerca di annientarsi) lo schema dei quartetti: che senso può avere, insieme alle parole soprastanti? (non sovrastanti: non c’è più nulla, nemmeno, che sovrasti… è un gioco d’agonia: un agone…)

improvvisi

 

l’improvvisazione genera la propria struttura (quando ormai il percorso, giunto oltre la sua metà, doveva, per proseguire, porsi una meta, un  ordine limitante), poi se ne libera, la attraversa con un solco irridente, ricominciante: da dopo leggibilità hors de structure: che gli improvvisi possano esistere da soli, altrimenti disposti, o dislocati, fuori schema le date, i luoghi: regole spazio-temporali dell’improvvisazione, suo accadere in un solo luogo, per un unico tempo – un frammento ininterrotto, la cui interruzione, se avviene, disgrega il gesto formante, lo arresta in un trèmito, nel timore balbettante dell’opera che si formerà, nel corso dei giorni, degli anni, che potrebbe non finire – l’improvvisazione impone il suo tempo: breve de-finito finito

quattro quaderni

le date, i luoghi, le dediche (tutte a posteriori, tutte dentro quegli anni o nel loro memorare): tentativi, stolti, di verità, non più di quanto siano stolti i segreti.

il presente racconta il passato, ogni giorno mutandolo: inutile dire, inutile non dire – meglio la finzione dei versi: il loro farsi oggetto, il loro durare, il loro mutare. Fuori di sé…

 

 

*

 

 

Da Il naufragio dello stile

(postfazione di Guido Caserza a  Quattro quaderni)

[…] Muovendo da un lontanissimo tirocìnio d’avanguardia (alludo alla raccolta Schedario. Poesie 1973-1977, Torino, Geiger, 1978), Mesa approda oggi a soluzioni formali molto raffinate e assai differenti dai precedenti lavori. Ciò non significa che il poeta sia giunto a un rovesciamento di quelle posizioni: la sostanza psicologica e ideologica è solo stata spostata molto più indietro, non negata. Mentre prima il referto esistenziale e le ragioni ideologiche di un’antieroica resistenza alla violenza della storia venivano esibite attraverso una paratassi accumulatoria (ad esempio in Improvviso e dopo, ed. Anterem, 1997, era un corpo lacerato a darsi come misura di un estremo furore sintattico), o persino nella tensione narrativa di un arco affabulatorio (come nelle Poesie per un romanzo d’avventura 1978-1985, inedite in volume), ora, alla fine di un ventennale lavoro “in levare”, tutto viene spostato sul piano dell’enunciazione, mercé un Eliot-Montale riletto attraverso l’attivissimo filtro del Beckett di Comment c’est. Credo che i critici concorderanno facilmente su questa ascendenza letteraria. Epperò con questo si coglie solo l’aspetto epidermico della poesia di questo nuovo Mesa che raccoglie la lontana eredità strutturale del Leopardi meditativo (penso alla celebre interrogazione “Questo è quel mondo?”), ossia quel gioco degli specchi attivato dai deittici, in cui la memoria si piega su se stessa e che mima, microsequenzialmente, la dicotomia quaderni-quartetti, improvvisazione-forma, lirica-struttura e che, a uno stadio larvale, era già nel Mesa minorenne di Schedario, laddove, in nota, esibiva la tensione fra la poesia e il progetto linguistico e poetico. […]

[…] il processo lirico e conoscitivo precedentemente dirottato dagli oggetti alla loro traccia, si concentra ora sugli elementi dell’enunciazione. In primo piano vengono portate le parole vuote della lingua (congiunzioni, dimostrativi, avverbi di modo e di tempo), disposte variabilmente per contiguità, anafora, ripresa a formare un virtuale asse paradigmatico. La campionatura è tanto estesa da riguardare ogni singolo componimento. Si leggano, come esempio, questi versi: “avere, era questo, dopo dire e ascoltare, / quasi nulla ma quello come per sempre”; “metti che poi / (poi dopo, quando davvero, infine, / saremo così stanchi)”. Viene fatto il vuoto intorno agli elementi dell’enunciazione, e i deittici, che troviamo anche isolati a formare potenziali unità versali (si veda ad esempio il secondo passaggio, dove i distici vengono franti dalla catena deittica), non svolgono più la funzione semantica di designazione del contesto arrivando anche, nella versione estrema, a negarsi la funzione di rapporto sintattico fra gli elementi dell’enunciato. Anche laddove il deittico si lega al termine concreto (“dall’alba, all’alba, dopo questa notte”), il risultato lirico non è quello di una designazione perentoria dell’oggetto, ma quello di creare nel lettore un’attesa di senso che non viene risolta. Il procedimento retorico della retardatio nominis viene esasperato fino all’annullamento del nome, poiché vengono disattivati i principali strumenti retorici su cui si basava la dicotomia parola-mondo: la comparazione e la metafora. […]

[…]  L’uso insistito della congiunzione (il lettore ne avrà colto vari altri campioni durante la sua lettura), ritardando l’accentuazione, produce una sincope, un rallentamento del ritmo, un ritorno circolare del verso su se stesso. Stilisticamente, l’emergenza della congiunzione e dei deittici, implica una visione del tempo che non procede come progressione dell’esperienza ma ossessivamente ritorna sulla vanità di ogni gesto, sullo svuotamento della memoria, poiché “il vero” è, per disperazione nichilistica del soggetto poetico sopravvissuto al disastro della storia, “dunque nulla, forse – / soltanto il movimento, / verso // a ritroso, anche: / via, e vai”. […]

[…] È evidente che, sotto la patina algida di questa retorica dell’enunciazione, possiamo presumere, come momento lirico iniziale, una fitta presenza della vita e dei suoi attori episodici. Parlerei, per questo motivo, di una deissi attributiva e fabulatoria. Se così non fosse, se dai deittici non discendesse una storia, se l’inerte dimostrativo non venisse letto come un fatto di sentimento, questa poesia rappresenterebbe un insensato esercizio linguistico. Così non è: il contenuto lirico si riversa sull’enunciazione, sulla disperante tautologia, su quel “gesto di fare il gesto” e sulle sue implicazioni epistemologiche: “pensa che vuoi pensare”; “sai che cosa del sapere?”. Ma perché, allora, questo ricorso ossessivo agli elementi dell’enunciazione? Credo innanzitutto che ci siano ragioni psicologiche, di pudore verso la propria autobiografia (ciò che spiega anche l’esibita artificiosità dello schema quartettistico, con funzione di schermo difensivo), e poetiche, di scetticismo lirico, ma credo anche che siano le meno interessanti. Più importante è chiarire questa fenomenologia dell’enunciazione. Bisogna fare un passo indietro, a quella retorica della negazione che apriva perentoriamente la raccolta Improvviso e dopo: “ritrova, no / querula / vecchia musica // no, ritrova / avida / vecchia mano // ritrova no / la tenera / lingua…”, e ricuperare la vecchia definizione di Bergson secondo cui la negazione “ne tient compte que du remplacé et ne s’occupe pas du remplaçant”. Quel meccanismo retorico è stato portato da Mesa in questa nuova raccolta alle estreme conseguenze: la negazione investe ora l’intero potenziale semantico. Il soggetto poetico sa che cosa non nomina, lasciando sospeso in un’attesa di senso ogni possibile ed eventuale referente. […]

[…] Siamo nel cuore di una lirica che ha come unica ragione quella di non pretendere ragioni, che ha il coraggio di gettare sulla pagina un’esperienza vitale in forme improvvise, non garantite a priori. È una poesia pura, una lirica astratta che si trascina dietro scorie e detriti e che compie il miracolo di avvincere il lettore a una storia, a un dolore, a un’angoscia mai nominati ma che, per le vie segrete dello stile e della grammatica, premono contro le parole. […]

 

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PROPOSTE DI LETTURA

 

http://guardareleggere.wordpress.com/2012/01/12/della-paronomasia-o-della-poesia-di-giuliano-mesa/

http://guardareleggere.wordpress.com/2012/02/08/delloscurita-fuori-del-racconto-o-della-poesia-di-giuliano-mesa-di-nuovo/

http://www.nazioneindiana.com/2011/12/08/importanza-di-un%E2%80%99opera/

http://www.nazioneindiana.com/2011/10/23/su-giuliano-mesa/

http://www.nazioneindiana.com/2010/11/18/appunti-sul-tiresia-di-giuliano-mesa/

http://puntocritico.eu/?p=1213

http://rebstein.wordpress.com/2012/01/16/mesa-e-il-poeta/#more-44190

http://rebstein.wordpress.com/2007/09/28/da-recitare-nei-giorni-di-festa-di-giuliano-mesa/

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Gli altri post della rubrica aperiodica di divulgazione letteraria “Voci del Novecento” si possono leggere qui

Piero Bigongiari

https://letteraturanecessaria.wordpress.com/2012/02/07/letteratura-necessaria-voci-del-novecento-1-piero-bigongiari/

Roberto Sanesi

http://rebstein.wordpress.com/2011/10/11/letteratura-necessaria-%E2%80%93-voci-del-novecento-ii/

Brandolino Brandolini D’Adda

http://rebstein.wordpress.com/2012/01/10/letteratura-necessaria-voci-del-novecento-iii/