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Martina Campi
Estensioni del tempo
Le Voci della Luna Edizioni
Vincitore Premio Giorgi 2012
A cura di Ivan Fedeli
Prefazione di Loredana Magazzeni
Postfazione di Enzo Campi
Immagini di Valentina Gaglione, Giampaolo De Pietro
Foto di copertina Anna Mosca
***
Della dilatazione e della frattura
Prima ancora di parlare del tempo e dello spazio, di estensioni e fratture, bisogna almeno accennare alla casualità e alla fatalità. Casualità, fatalità, estensioni, fratture sono tutte nominazioni di azioni, «allo stesso tempo», compiute e incompiute, evase e inevase. Tutte queste azioni – che, beninteso, producono spazialità – possono essere ri-nominate con nomi diversi, magari con sinonimi e contrari, con nomi-altri che possano creare un rinvio ad accezioni-altre e che possano far scendere in campo la complessità e la molteplicità non solo dell’io-pensante, ma anche del «tempo» che inquadra (incornicia, delimita) – anche storicamente, se vogliamo – i suoi parti artistici. Ma quell’io-pensante è anche un io-agente che muove i suoi passi e compie i suoi gesti in uno «spazio», allo stesso modo incorniciato e delimitato. Il caso è, letteralmente e etimologicamente, ciò che cade. Può essere inteso anche come un accidente che può condizionare l’avvenire (e quindi una delle tre partizioni del tempo) o che comunque fomenta una reazione. Il fato, invece, è ciò che viene posto, là, in quel luogo specifico, in quel determinato spazio, per far sì che le cose vadano in un certo modo piuttosto che un altro. Senza soffermarci su ciò che viene posto e sulla «posizione», ovvero sulla precisa e voluta dislocazione delle singole parole sulle pagine che compongono quest’opera, senza soffermarci sulla «caduta», sul flusso a caduta, ma spaziato e intervallato, che rende perfettamente il senso dell’estensione, dobbiamo dire che ciò che avviene per caso ha comunque bisogno di una determinata scansione temporale in cui manifestarsi e di uno spazio in cui, per così dire, dettare le sue regole. Per questo vorrei accennare alla situazione di casualità in cui un critico si trovi a parlare di un’autrice che porta il suo stesso cognome pur non essendoci nessun legame di parentela, di come questo critico si trovi ad innestare il suo proprio tempo in un tempo-altro, di come tenti di creare una spazialità in un’opera che è già spaziata-in-sé, di come sia, in definitiva, inutile nominare, in modo preciso e categorico, cose e persone, di come questo operare – indotto dal caso – rientri, forse, nella sfera della fatalità, in un’inevitabilità che corre a braccetto proprio col tempo, anch’esso inevitabile e, per certi versi, fatale. Tempo fatale quindi, perché si è portati a credere che esso sia categorico, e ciò, almeno in parte, risponde a verità. Ma ci sono margini in cui agire. Il caso può dipendere dal libero arbitrio, dalla semplice scelta di svoltare a sinistra piuttosto che a destra. Qui entra in gioco il pensiero, o meglio: la psiche (che lo stesso Freud definiva “estesa”), quella cosa che indirizza e dispiega il nostro modo di porci a confronto non solo con le cose quotidiane ma, anche e soprattutto, con il caso e il fato, con il tempo e lo spazio.
Partiamo quindi dal tempo.
Passato. Presente. Futuro.
Ognuna di queste tre scansioni trova nell’opera un suo ideale sinonimo o, se preferite, un correlativo nel quale identificarsi o comunque esperirsi. Detto questo ci toccherà quantomeno «estendere» il passato verso la contiguità col ricordo (a solo titolo d’occorrenza, la parola “memoria” appare in ben cinque dei titoli delle sezioni che compongono l’opera), il presente verso l’illusione di una conquista, o meglio verso la perdita, e il futuro verso l’inevitabilità dell’utopia. Queste tre doppie-coppie sono, forse, gli elementi precipui che andranno a costituire il leit motiv di questo viaggio – a tratti volutamente incosciente – che sembra rivolto a cercare una prossimità con il «soggetto» a cui si riferisce. Ho usato una proposizione ipotetica perché, anche a lettura ultimata, non saremo certi che siano proprio queste le intenzioni dell’autrice. Vuoi solo per il fatto che la prossimità col tempo viaggia a braccetto con la sua destabilizzazione (“Per quanto possa sembrare / strano, abbiamo da imparare / che il tempo non esiste // è solo il dentro, / che si espande”).
Il soggetto che qui si vagheggia è (in)naturalmente identificabile nel «tempo». Anche se questo nostro fantomatico tempo sarà progressivamente costretto a lasciare il centro del palcoscenico alla dilatazione spaziale di quella frattura che la scrittura aprirà al suo interno, o meglio in una delle parti che lo compongono. Una parte infinitesimale certo, perché stiamo parlando di un «istante», di un solo, semplice (ma pluristrutturato e reiterabile) istante.
Ma procediamo con ordine. L’io che abita questo tempo plurimo, o che dovrebbe abitarlo, si limita (magari sarebbe più appropriato dire che tenta di porsi al limite) a disseminare sparute, minimali, evanescenti tracce della sua presenza, quella che l’autrice definisce, in un passaggio significativo, “la tendenza allo sbiadire”. Ma sarebbe azzardato parlare di presenza o di presente, perché l’immediato non si dà come istante da vivere ma, e lo vedremo meglio in seguito, come istante da dilatare, e quindi «estendere». Di conseguenza la presenza può agire o farsi agire solo in quel “dentro,/ che si espande”. Potrebbe sembrare una forzatura, ma la chora, che è qui sottesa, assume, nell’avvicendarsi delle estensioni, tutte le caratteristiche di un vero e proprio «porta-impronte». E non solo, la sua funzione non si esaurisce a farsi ricettacolo-di-sé-in-sé, ma tenta, a più riprese, una disseminazione che abbraccia diverse modalità (si intendano con questo termine da un lato le cosiddette esigenze psichiche e intellettuali, quelli che possiamo tranquillamente definire come gesti extra-quotidiani, e dall’altro lato gli usi e le consuetudini che accompagnano e indirizzano i nostri gesti quotidiani) dell’essere-al-mondo. Ed è per questa ragione che possiamo assistere a un vero e proprio palinsesto anatomico. È significativo che parole come pancia, occhi, mani, dita, pelle, ginocchia ricorrano nell’opera in diversi contesti e svariate accezioni, come se per disseminare la voce intestina (quella che si dipana dal porta-impronte) fosse necessario esperire/esporre/estendere, magari per frammenti, tutti gli organi e tutte la parti che permettono al corpo-mente di veicolare il conflitto tra perdita e desiderio, tra dono e dolo, tra la voglia di gettarsi e l’inevitabilità di essere gettati. Per far sì che ciò accada non c’è nulla di più calzante e significativo di questa sorta di guerra pacifica che l’autrice instaura col tempo.
Parlare del tempo (farsi parlare dal tempo), lasciarsi trasportare dal tempo, consegnarsi al tempo sono azioni non facili da compiere (se non nell’inconsapevolezza della complessa struttura della cosa verso cui si tende, ma non è il nostro caso), o comunque non sono così ovvie e naturali come si potrebbe credere. Non c’è nulla di naturale nell’esercizio di misurarsi col tempo. Casomai c’è il nulla-di-sé che si rende inerme e soccombe alla potenza di un qualcosa di più grande e che non si lascia cogliere se non nell’illusione. L’io è, sempre e comunque, succube del tempo. Martina Campi sembra conoscere l’assioma e tenta di aggirarlo eludendo lo scontro diretto. L’autrice, nella maggior parte dei casi, non si arroga la presunzione di dire/scrivere “io”, perché sa che questa enunciazione svanirà nel momento stesso in cui verrà pronunciata o scritta. Non c’è un tempo, più o meno consono, in cui poter dire “io” o “sono io”; è lo stesso tempo a non permettere il compimento di questa azione, per così dire, incosciente e inconsulta. Ma ci potrebbe essere uno spazio ove camuffare l’«urgenza» in «desiderio», dove l’esigenza di porsi a confronto col tempo (che nelle persone pensanti rappresenta comunque uno dei «sensi dell’essere») possa essere enunciata attraverso le modalità del desiderio represso o della finta rassegnazione, o ancora attraverso un diktat rallentato e una postura, per così dire, indolente.
Esperire ildesiderio può lenire la soggiacenza dell’io al tempo? Interrogazione originaria, inevitabilmente sorgiva, e quindi aperta, perché segna il passato, attraversa con dolo il presente e si ripropone implacabilmente in tutte le scansioni dell’avvenire. Da qui l’impossibilità di rispondere, senza rischiare di mettere in gioco tendenze autolesioniste o masochistiche. Ma, i più onesti lo sanno, non c’è scrittura che non sia autolesionista. Per questo abbiamo accennato poco più sopra ad una “voluta incoscienza”. Quest’opera sembra cercare l’incoscienza e lo fa attraverso una pressoché continua esercitazione di camuffamento o, se preferite, di aggiramento/raggiramento dell’ostacolo che gli si para dinanzi. Martina Campi si rende indolente, sembra mostrare noncuranza e indifferenza nei confronti del tempo ma, in realtà, elabora un lento processo di effrazione per aprirsi uno spazio nel quale agire.
Ecco: lo «spazio».
Lo spazio di un libro è naturalmente chiuso, inscritto in cornici ben delimitate. La sfida di ogni estensione degna di questo nome è quella di far sì che le parole trovino almeno un punto di fuga. Quasi paradossalmente (ma nemmeno più di tanto) il punto di fuga per esperirsi in un fuori-di-sé deve intaccare un interno, o comunque lavorare all’interno di quel soggetto che intende ri-designare e ri-nominare. Da qui al procedimento della dilatazione il passo è quasi obbligato.
In questa lenta e progressiva dilatazione (estensione) risiede, oramai allettato, proprio quel tempo (sempre plurimo, mai univoco) che si ritrova a cercare il suo aver-luogo in un luogo che non c’è più, che non «è» più, che non è altro che la sua riconfigurazione estensiva, o meglio: l’estensione che l’autrice gli impone, quasi fuorviandolo e destabilizzandolo. Abbiamo quindi una sorta di tempo-nuovo che può darsi (e, a sua volta, svanire) non nel coglimento di un istante, ma solo creando una frattura in quell’istante. Quest’opera entra (magari, come già accennato, con procedimento di dolo) nella frattura e comincia a lavorare sulla sua dilatazione. Questo lavoro, questo operare nell’opera può avvenire solo mettendo in gioco gli «spaziamenti» che questa modalità di scrittura pretende. In un passaggio possiamo riscontrare un preciso e significativo riferimento a “quel Tarkovsky” che letteralmente “scolpiva” il tempo nelle sue pellicole. Tarkovsky lavorava sullo sfinimento dei dettagli da reiterare proprio per poter meglio scolpire (incidere, intaccare) il tempo, entrava dentro di esso, invadeva pieghe e fenditure creando istanti da dilatare. In definitiva creava atmosfere rallentate e rarefatte donando al tempo una sorta di spazialità, tanto illusoria quanto concreta, tanto areale quanto pesante (si intenda qui il peso di un pensiero a struttura complessa).
C’è spazialità in quest’opera? C’è spaziamento in quest’opera?
Direi di sì. La spazialità e lo spaziamento hanno luogo proprio nella parola, nelle scansioni che rischiano soventemente l’allungamento, ovvero e ancora una volta: l’estensione, quella che ci toccherà definire finalmente una protesi, non una prosecuzione in termini altri, non un supplemento, ma propriamente il prolungamento, la dilatazione della sua dislocazione sulla carta, l’allungamento della sua dimensione temporale. Questo procedimento, questo dispositivo formale permette, in un certo senso, di donare una durata diversa al tempo. Non più il solo tempo necessario al compimento di un’azione, ma il tempo, per così dire, superfluo in cui rallentare il compimento dell’azione, in cui creare quella dimensione di «rarefazione» che pervade e caratterizza l’intera opera. Sarebbe pressoché impossibile citare tutte le occorrenze che evidenziano e giustificano questo procedimento ma vi posso assicurare che una delle chiavi per accedere a questo esercizio estensivo consiste proprio nella consapevolezza che le spaziature, le pause (logiche o psicologiche che siano), gli intervalli ove regna il fatidico “spazio bianco”, gli a capo, le estenuanti dilatazioni si trasformano, sempre e comunque, da procedimenti formali in veri e propri dispositivi concettuali.
In definitiva, senza mai finire del tutto, l’es di queste «estensioni» è peso, è cosa, è cosa della psiche che elabora il proprio peso e lo esperisce, attraverso un ritmo lento e cadenzato, in una sorta di «penso, quindi sono esteso» nel tempo e nello spazio.
Il tempo non è, qui, circolare, ma circolante. È esso stesso estensione, magari vincolato dai comuni parametri del comune pensarlo e intenderlo. Ma il tempo è spartito, viene ulteriormente spartito e scandito, in parti e porzioni, per ciò che ci serve o che pensiamo possa servirci. Il tempo è dunque al nostro servizio? Niente di più sbagliato. Siamo noi a servire il tempo. Veniamo usati e ab-usati da esso. Ci illudiamo di abitarlo. Ma, in realtà, possiamo solo toccarne i limiti, le bordature. È anche vero che toccando i limiti siamo già a metà strada per «toccarci al limite». Il passo è breve. E, almeno in campo artistico, ciò è un bene. Tra toccare il limite e toccarsi al limite c’è uno scarto. In questo scarto i più edotti (o i più folli) cercano una sorta di affezione che possa fungere da punto di partenza per quella che, per semplicità, definiremo creazione artistica.
Ora, la sfida è proprio quella di far credere al tempo di poterci gettare in pasto alla vita a suo uso e piacimento, mentre in realtà stiamo già cercando di appropriarci di una delle sue «porzioni» per costruire una sorta di piccola dimora (uno spazio?), magari effimera e destinata alla dissoluzione, dove estendere, anche arbitrariamente e con forzature, la coppia peso-pensiero, dove cercare gli spaziamenti più adatti alla creazione di un flusso (necessariamente dilatato e a caduta) che possa veicolare la nostra voce.
Tutto questo è una parte di ciò che, qui, accade.
(Enzo Campi)
(dalla sezione Le ore asterisco)
distrazioni imposte
dissottrazioni opposte
nell’attesa necessaria
che si fa nuvola si fa
strada traiettoria
d’aria
fino al momento
della pazienza
che si risveglia,
affamata.
*
perché si aspetta
e nell’attesa necessaria
si seminano planimetrie dell’ansia
senza intenzioni
si racconta
dell’ombra degli alberi
e primavera,
si va
sotto le fronde
come fanno i bambini
come si faceva
tra i ciliegi
arrampicandosi
creature
prive d’ali
ogni ora un cielo
ogni ora a scivolare piano
per germogli, simulacri d’occhi.
*
(dalla sezione Memoria dell’ombra)
Dietro gli occhi
Ci sono lettere inesplose
sui prati, sui
marciapiedi i resti
dai fogli
nei contenitori le frasi
intere di un pomeriggio i saluti
ai semafori sospinti, divenuti
inarrestabili
All’ombra di una palizzata
si trovano frescure per risvegli
occasionali e abbracci
incolumi
tutta l’acqua accumulata non ci sa
riempire
memorie instabili, la
sete, sotto i capelli.
*
(dalla sezione Memoria delle foglie)
Insegnami
la tendenza allo sbiadire
pensando pensando tende a scomparire
la parola posa sussurra
trasmessa in carne d’altro inessere
ch’è fuori e si vede, fuori moda, forse?
Interrogazioni, pretestuose
a guardarsi strizzando
inerzia all’erta allegramente dis/azione
mente, nei frattempi, contrappunti
battente ripetente battente
sottrarsi è possibile
scomporsi
abili responsi
che non si ripetono, non si ripetono e grazie
alle occasioni non si ripetono
si sentono si osservano si ascoltano si accumulano
tendono allo scomparire.
*
Nella terra
Il passato non è passato
il passato è movimento
le parole sono ferme, le parole sono
gli smarrimenti nella terra sono le parole
e la terra ha calci e polvere
(il colore è sempre quello rosso)
Come la luce come fessura come
dita, che si toccano che non si
riconoscono la pelle
i fiumi, le maiuscole
le iniziali
da qualcuno, presto da qualcuno
per lasciargli lo spazio
malato, santo, che prende
spazio
il mattino poco per volta,
per scelta
sulla pancia.
*
(dalla sezione Memoria dell’onda)
Mostr’arsi
Escono
dalle bocche
del maggio
al tramonto
e si rompono
non potendo
attendere
oltre
o ancora
ascoltare
aspettarsi
comparire
sentirsi
nutrire
insieme
seme
di vento
non voci
ma appena
sussurri,
alla corrente
per lungo
tempo
lasciati
per troppo
tempo
senza
neppure
per niente sapere
come dire
cosa dire.
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