Francesca Del Moro
La statura della palma. Canti di martiri antiche
Edizioni Cofine 2019.
Risulta dalla prefazione di Anna Maria Curci che questo lavoro di Francesca Del Moro, La statura della Palma, sia stato richiesto e che quindi si tratti della risposta a una proposta di impegnare la propria poesia su un tema. È qualcosa che accadeva in altri tempi, del lavoro poetico che non nasce in sé e per sé, ma si dedica.
Il tema, proposto a una donna oggi, è peraltro davvero interessante: rappresentare giovani donne che si sono giocate la vita in un conflitto assoluto, al prezzo di dover subire una folle violenza fisica. Perpetrata da uomini nel loro potere maritale e politico, come persecutori singoli, o tramite brutali esecutori, o attraverso la incontenibile violenza di un branco o orda eccitata.
Qualcosa che richiama una radice profondamente confitta anche nel presente.
Che quei fatti siano accaduti lo afferma la tradizione che ha trasmesso le Passioni dei santi e dei beati, e in quella tradizione vanno accolti come realtà avvenuta.
Per me lettrice si è trattato inizialmente di comprendere come la poeta Francesca avesse affrontato il fatto di un tema proposto e non originato in sé. Successivamente ho voluto capire per quali vie la poeta avesse potuto suscitare in sé echi e coinvolgimenti con le protagoniste del libro, e infine sono approdata alle ragioni con cui ha potuto giustificare la loro scelta del martirio.
Sul piano di superficie del testo la mia lettura ha rilevato la padronanza linguistica e compositiva dell’autrice. Per ciascuna delle tredici poesie differente è stata l’”inventio” degli argomenti e la costruzione (dispositio) espositiva. Differenti ricorsi a figure di parola, di tessitura sonora, di impiego dello stile (sottile o veemente o elevato). Singolari esempi unici sono il fiato cantato della poesia di Cecilia e la danza macabra di Giuliana.
Le differenze di personalità tra le diverse sante sono agganciate alle Passioni della tradizione, che raccontando il martirio tracciano anche differenze di carattere, educazione, stato sociale. Di suo la poeta approfondisce le differenze tra le sante rappresentando le relazioni con un padre, con il figlio allattato e con la figlia partorita, il rapporto sororale nel caso di Perpetua e Felicita, quello magistrale tra Caterina e Regina martire.
Al livello più profondo del testo, quello della scelta del martirio per la fede, la poeta richiama valori propri della coscienza femminile oggi: la verginità e la castità intese come inviolabile interezza di sé anche oltre la profanazione e distruzione del corpo; la assolutezza del proprio scopo, o desiderio, aspirazione, che configura l’identità.
L’argomento del conflitto tra maschile e femminile è anche dramma dell’oggi – mentre è salvifico e trionfa nella dimensione interiore il rapporto amoroso con lo sposo, con il fratello, il figlio.
Quel conflitto è direttamente il male. Satana si affaccia con Margherita. In veste umile e in pianto, chiede a Dio di giustificarsi per avere fatto di lui l’assassino, ma “vattene” grida Margherita, “la tua maschera pietosa non mi inganna”.
Un’altra voce si alza con l’ultima santa, i cui occhi penetrano la realtà. Anche la voce chiede al “respiro formidabile del padre/del padre che tace” conto del male.
Insieme a lui (“Ora s’invera in te la vista./Ti leggo tutti i nostri nomi/a uno a uno sulle labbra”) Lucia deve cadere: “Ma per me è già troppo tardi.// Non posso più rinunciare, non è tempo/per questo genere di ripensamenti.//Così cadranno insieme al capo/i miei occhi lucenti”.
(Cristiana Fischer)
*
AGNESE
Voi avete carni dure.
Coriacee pelli di testuggine.
Fauci di iene spalancate al riso.
Guizzi di lingue come anguille.
Siete costanti nell’assedio, furiosi nell’assalto.
Ma quale gloria avete, quale vanto
rubando con la forza quel che d’amore è un regalo?
Basta poco a fermare il cuore che non farete palpitare.
Mi strapperete la lingua ma non dirà il vostro nome
né formerete dalla mia bocca sanguinante un bacio.
Mi piegherete le braccia, eppure non vi cingeranno.
Se mi tagliate le mani, non mieterete carezze.
Non è passione la fiamma che mi colora le guance
né è resa questo abbandono.
Non sarà varco allo spirito alcuna breccia nella carne.
Fate un misero bottino di cose senza valore
il mio tesoro è nascosto.
Cristo ha già teso la mano verso il più alto ramo
dove, matura, l’uva vi dondola sul capo.
Solo lui succhierà i miei dolcissimi acini,
solo lui mi spremerà, mi farà vino al suo calice,
goccia a goccia mi berrà.
Lui vede ciò che vuole il cuore
ascolta il grido che s’innalza dall’abisso.
Rimane vergine chi non acconsente
e puro è il corpo se la volontà non cede.
Come foltissimo vello, come armatura a proteggermi
si allungano e mi vestono i capelli.
Ecco, le vostre mani arretrano, si congiungono in preghiera.
L’angelo annuncia la buona novella.
Uscite perdonati, uscite e predicate.
Non toccherete l’agnella.
*
FELICITA
Io sono l’assenza.
Sono la mancanza, il vuoto, il volto
per scherzo disegnato dalle ombre della notte.
Per scherzo, per celia verso il suo bisogno.
Il buco in cui precipita nel sogno.
La mano che non la coprirà
per proteggerla dal freddo. Sono
le braccia che si sciolgono, il diniego.
Rimango accanto a lei, così.
E la tengo qui con me, nel cielo
che rigonfia di spavento, nella terra
fecondata dalla mattanza.
Il suo pianto si dilata, ingrossa
sulle bocche che chiamano la morte
nelle fauci delle fiere, della vacca scalmanata.
Quanto è grande, Signore
il dono che mi hai dato e che ti rendo.
Appena in tempo per morire insieme ai tuoi
ho mosso un passo troppo breve
dal sangue di puerpera al battesimo di sangue
dall’ostetrica al reziario.
Ho un cerchio di braccia a contenere
le gambe disabituate al passo lieve.
Sono un frutto morbido, sgranato.
Un giorno lei saprà che non ho pianto.
Il sole a occidente annega nel suo sangue
presto anche il nostro scenderà.
Nell’ora in cui si mette il punto, nell’ora cupa della fine
offro i seni fiorenti ai morsi delle belve.
Ma a spezzarmi è un dolore più forte.
Perché io muoio a lei e lei mi muore.
Il corpo arretra in sé, da sé si esclude
data una figlia, nel dies natalis io mi do alla luce.
Ma quanto è grande, Signore, questa rinuncia all’amore.
Cado e Perpetua mi solleva, non trema il suo viso d’acciaio.
Si è ricomposta la veste, ha raccolto i capelli col fermaglio.
Dice in silenzio: “Non sarai femmina schiava del grembo
ricorda Abramo pronto al sacrificio
pensa a Medea forte nella vendetta.
Ama Dio più di lei, amalo fortissimamente”.
Dalla ferita aperta, ora mi genero alle tue mani
alle tue mani imbrattate delle nostre carni
le mani impregnate di tutti i nuovi nati.
Scende la quiete, il pianto tace.
La morte a me verrà più dolce di ogni dolcezza di madre.

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