
Tra empatia e sacrificio.
La «forza» e le «forzature» de L’albero delle bugie
Credo che sia opportuno, in prima istanza, introdurre un concetto personalizzato di «forza» e soffermarsi sulle sue accezioni, ovvero sulle possibilità che derivano dai suoi campi semantici. Che cos’è la forza? La forza è un’azione che invade e modifica uno spazio o comunque una porzione di esso. Nell’esercizio di questa azione è insita una prerogativa di potenza. L’uomo e l’animale usano la potenza, anche come esercizio di potere, per rappresentare il proprio corpo attraverso dei movimenti. Ci sono qui diverse tipologie di forza. Intanto la violenza esercitata sull’animale . E qui l’animale è sottoposto alla potenza dell’umano. Poi la violenza che l’umano altro (l’artista) riversa verso-di-sé auto-imprigionandosi. E qui la volontà di potenza entra in un sistema interpretativo decisamente articolato, vuoi solo perché l’umano si rende simile all’animale: accompagna l’animale al sacrificio e si rende egli stesso sacrificabile.
L’albero delle bugie è, per certi versi (non disdegnate l’accezione del «verso» come «suono»), un’obbligazione alla forza e alla forzatura. Il piede che dovrebbe fomentare la danza è «forzato» in una chiusura metallica, un collare, una cavigliera che trasforma – gioco forza – l’essere umano in un forzato, in un prigioniero. E lo status della prigionia è, a tutti gli effetti (anche qui non disdegnate accezioni effettuali legate alla scena o proiettate verso una scena-di-sé che, per poter esistere, deve nutrirsi dell’altro), un’obbligazione: ci si consegna ad una costrizione o, se preferite, si è costretti a consegnarsi.
Cosa consegna e in/a cosa si consegna l’essere umano?
Consegna la sua parte umana all’animale e si consegna alla dicotomia vita-morte attraverso l’idealizzazione di una «fratellanza» con esso. L’umano è così sottoposto ad una forza, diventa cioè l’immagine in movimento di una forzatura: una presenza – quasi fantasmatica seppur concreta – di luce (il bianco è la luce dell’empatia e della comunione) che avanza a tentoni nello spazio ove si consuma la restituzione auditiva e straziante della «voce ultima», del verso che anticipa la morte, del suono in cui viene emblematizzato l’ultimo guizzo dell’animale. Questa forzatura è innanzitutto una «chiusura» e una «costrizione», e questo avviene prima ancora che le due prerogative – tramite la riconciliazione dei contrari – si trasformino nell’«apertura» e nella «liberazione».
Nella lenta (e forzata) processione «rituale» vengono distribuite nello spazio le linee metamorfiche e empatiche della commistione tra umano e animale, dove l’idea di «rendersi simile» all’altro è peculiarità imprescindibile non tanto per l’abolizione quanto per la co-abitazione delle «distanze», sia elettive che propriamente fisiche. Ed è così che l’umano viene detenuto in un campo ideale e idealizzato, ma al contempo detiene l’investitura per la trasmissione di un messaggio attraverso dati sensibili.
Ci sarebbe da chiedersi se la prigionia dell’umano equivale alla prigionia dell’animale. Se si ragiona attraverso campi semantici volti ad estendere la concettualizzazione verso le figure che dovrebbero significarla e rappresentarla, si potrebbe dire che l’animale si apre all’umano «attivo» (performer) e all’umano «passivo» (pubblico) liberando il suo urlo straziante. Paradossalmente, ma nemmeno più di tanto, l’apertura si trasforma nella voce della morte che è in procinto di figurare il suo aver-luogo, il suo essere segno-del-luogo. Figurazioni di questo tipo sono segni semantici: le tracce (si potrebbe dire il calco o la marca o, per restare in tema, il marchio) lasciano per l’appunto il segno. Questo segno si distingue non in quanto tale ma nella successiva indistinzione del connubio empatico tra umano e animale. Ed è anche per questo che l’umano, una volta forzato e costretto nel metallo della prigionia, dopo essersi reso «simile» all’animale, si conduce verso il patibolo, ideale e idealizzato, ove consumare il suo inno alla vita.
Un inno alla vita che celebra la morte?
Un altro paradosso, solo apparente, che lavora sui contrari per mettersi in gioco in prima persona. Certo, si potrebbe anche rovesciare, sovvertire, pervertire l’idealizzazione indirizzando il gesto verso la vita considerando il canto rituale come un inno per la morte. Ma in realtà l’inno si dà e accade in-luogo-della-morte, celebra cioè la vita per conto della morte. Ed è forse questa l’eccedenza, anche metafisica se vogliamo, che conferisce grandezza e significanza all’atto performativo. Il canto diventa il tramite per l’ospitalità dell’animale in sé e si dà attraverso quello che si può considerare come un atto d’amore. Per questo non è urlato a squarciagola, anzi si potrebbe definire silenziato. Ma anche qui i piani e i livelli sono decisamente plurimi e stratificati. Rubando il titolo di un volume critico di Jean-Luc Nancy e Georges Didi-Hubermann sul lavoro di Claudio Parmiggiani, mi verrebbe da dire che le azioni di Mona Lisa Tina avvengono “in silenzio a voce alta”. Sempre sulla falsariga o, se preferite, sulle linee di intercomunicazione tra i contrari, l’urlo vive e si amplifica, in nuce, proprio nel silenzio. E il silenzio è, per così dire, espressione prima e precipua dell’urlo. C’è corrispondenza e reversibilità tra l’urlo e il silenzio, così come avviene del resto tra la vita e la morte. La riconciliazione dei contrari è uno dei principali dispositivi di comunicazione messi in atto da Mona Lisa Tina.
In questa performance c’è una tripla comunicazione, una tripla trasmissione di dati sensibili, un triplo dono. Mona Lisa Tina, dopo aver ricevuto in sé la voce e l’anima dell’animale si offre all’impatto con il «fuori» a patto che ci sia un gesto di ritorno. Non a caso l’interazione con il pubblico (che prima abbiamo definito passivo nella fruizione dell’urlo e della figurazione sacrificale dell’animale, e che adesso ridefiniamo attivo nel ricevimento di una concreta tangibilità da parte dell’artista) avviene attraverso un contatto ravvicinato. La parte conclusiva di questa performance, in cui ogni spettatore riceve un bacio sulle labbra da parte della performer, ne rappresenta l’occorrenza più evidente, creando o comunque gettando le basi per una situazione sintonica e simbiotica che travalica la mera rappresentazione per deterritorializzarsi su piani e livelli più strutturati: l’ennesima apertura-di-sé verso l’altro, l’ennesima offerta-di-sé all’altro, l’ennesimo ricevimento dell’altro in sé.
Ciò che Mona Lisa Tina offre all’esterno è una chance, una possibilità di ridefinizione della comunicazione. (Enzo Campi)

Mona Lisa Tina
L’albero delle bugie
L’ALBERO DELLE BUGIE è un progetto performativo ampio, appositamente pensato per gli spazi del Macro Testaccio di Roma. Esso ha accolto riflessioni legate al mistero della vita e della morte, nonché alle radici culturali dell’individuo e all’identità specifica del luogo, aspirando altresì a far emergere, nell’atto performativo tra artista e presenti, un momento di emotiva e simbolica comunicazione con l’ “Altro”.
La performance è stata presentata il 13 Aprile 2016 in occasione dell’inaugurazione del Premio Fondazione Vaf, VII edizione.
Il progetto si sviluppa in due fasi interdipendenti. Nella prima parte, il pubblico è invitato a sostare nella soglia del padiglione museale, in una dimensione di attesa apparentemente immotivata che si fa particolarmente estraniante e forse anche difficile da sostenere.
Durante quell’attesa l’unica cosa che ascolta è l’audio diffuso che trasmette gli echi della sofferenza degli animali durante il processo di uccisione e di macellazione. Da lontano si intravede l’artista che si dirige verso il pubblico e quindi verso l’entrata del Padiglione: procede molto faticosamente come se qualcosa le impedisse di camminare liberamente L’artista, scalza e vestita di bianco ha nel collo dei piedi un paio di cavigliere bloccanti, come quelle da bestiame, che a loro volta costituiscono una struttura ramificata composta da una serie di campanacci di varie dimensioni. Sarà lei la prima ad oltrepassare la soglia seguita dal pubblico.
Nel box assegnatole è proiettato, per pochi minuti, il video della macellazione da cui ha avuto origine l’audio diffuso. La performer si inginocchia di fronte ad esso, come se volesse chiedere perdono a tutti coloro che hanno subito e continuano a subire torture e violenze, in qualunque forma esse si manifestino, e di fronte a tanta atrocità risponde intonando dolcemente e sommessamente un canto d’amore popolare della sua tradizione.
Alla morte l’artista risponde con la vita (il suo canto desidera anche purificare l’identità del luogo essendo il Macro un ex macello bovino e suino).
Finito il brano e conclusosi il video, una persona da lei scelta, silenziosamente aiuterà l’artista ad alzarsi e la libererà dalla struttura ramificata; le laverà i piedi in un gesto simbolico importante perché essi sono la sede in cui vengono collocate idealmente le radici identitarie di ogni cultura.
L’atto del lavare i piedi partecipa, insieme ai gesti eseguiti nella prima parte del progetto, ad un processo trasformativo più ampio che consentirà di realizzare una sorta di catarsi identitaria. l’Arte, quale che sia la sua forma espressiva, continuamente propone strategie di sopravvivenza creative che permettono la riflessione e il cambiamento.
A questo punto sullo schermo viene proiettata l’immagine di un grande e universale albero genealogico. Questa struttura si pone in relazione all’immagine dell’albero e appare come una sorta di estensione, delle sue stesse radici.
In un’atmosfera di silenzio rispettoso e amorevole energia ha inizio la fase conclusiva della performance. L’artista, teneramente consegna ad ogni singolo partecipante un bacio sulle labbra e unisce, volta per volta le mani di tutte le persone che accoglieranno quel gesto.
L’azione del baciare nelle sue molteplici interpretazioni, in questo caso specifico, non ha niente di erotico o di seduttivo, ma amplifica il senso di comunione e di vicinanza affettiva –l’unica risorsa che gli esseri umani hanno per superare e riscattare i conflitti e gli orrori di crimini antichi e di quelli tutt’ora in atto in molti paesi del mondo .
La performance si conclude quando l’artista avrà baciato e unito, mano nella mano, tutti i presenti.
In una dimensione di grande coinvolgimento emotivo e di fiducia positiva tornerà ad inginocchiarsi di fronte al pubblico, come gesto di ringraziamento per la sacralità (laica) che ogni essere umano ha in sé, partecipante prezioso e irripetibile nelle sue peculiarità di una collettività universale (Mona Lisa Tina).

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