ciò che conta, alla fine, è l’
indizio non recepito all’
inizio della saga, ciò che
conta, alla fine, è continuare a
essere in ritardo con tutto ciò che
ci definisce e sfinisce, per questo non
sarà certo una sorpresa se la
figura-ultima, ammesso e non
concesso che si possa identificare con
chiarezza una figura definitiva,
risulterà uguale
a quella figura che ci ha
catapultato in questa risibile saga a
delinquere
o a delinquere,
e che insiste
nella ricerca del punto più
consono da cui cominciare a
dipanare il filo, e dunque:
si estranea dal
sorgivo, perde il contatto con l’
ultimità, sì, è distratto dallo
schermo, dalla
schermata che riproduce
impietosamente il suo
fallimento to touch or
not to touch, disse, ma
non è questo il problema, no,
semmai si tonifica se
viene sfiorato col guanto
che ripara
la rottura
o la rottura,
ma, così come è giusto che sia,
schiva il contatto come
per cercare un prodigio
a rinsaldare
o a rinsaldare,
perché evitando il
contatto ci si libera dall’
impulso di creare un precedente, è
una questione di indizi, ribadì
perentoriamente, ma non una
pura disseminazione quanto l’
indicizzazione degli indizi senza l’
avvento di palinsesti che
possano fuorviare l’
incedere
del flusso
o del flusso,
e si spiegò meglio: solo un
evento di segni,
segnali, luoghi, fisicità da
osservare senza che ci sia la
possibilità di guardare, ma con l’
eventualità di essere guardati da
ciò che si indica, da ciò che si
può solo indicare senza che ci sia la
possibilità di toccare o di farsi toccare,
une maille à l’
endroit et une maille à l’
envers, c’
est ça, fatevene una
ragione, facciamocene una
ragione, ci sono due stazioni tra
le quali consumare l’
erranza: la prima stazione e la
prima stazione, sempre la stessa e
sempre diversa, scegliendo ogni volta un
punto preciso in cui innestare il
chiodo, ma allora non c’
è movimento, disse, ma fu
subito smentito dall’
irruenza beffarda del coro degli
astanti: è nelle due stazioni, la
prima e la prima, che accade l’
evento, le parole si affiancano, poi
cadono, si affiancano di nuovo,
cadono di nuovo e si incolonnano,
e allora: l’
aperto, il chiuso, la radura, la
scatola, tutto fa brodo nel
brodo primordiale, la montagna sulla
cui vetta si respira l’
eternità, la pietra da scagliare contro l’
intruso, e quale che sia l’
invio il destinatario risulterà sempre assente, è
così che funziona, fin dalla notte dei tempi,
quando orde barbariche esplodevano i
suoni gutturali che incitavano alla
guerra, ed è proprio di questo che si
tratta: una guerra, santa o pagana che sia,
una guerra tra chi si eleva e chi cade stremato al
suolo, una guerra tra quelle sillabe che
in passato furono concubine e adesso
invece inneggiano la crasi, l’
urto violento, l’
incidente di percorso, il masso di granito sul
quale sfaldarsi, e l’
imbonitore lo sa, conosce i segreti della
scrittura, della finzione e recita a memoria il
solito peana: a visibili lacune,
a morìe di referenti privi di utensili
che possano corrodere il
bastone che ancora fende l’
aria nel solito gesto inconcluso
di un salto mai compiuto,
a incarti di rara densità
seppure escritti e evidenziati
passando dal tondo al corsivo,
a manipolazioni di senso
ottenute trasformando il
manufatto in un artefatto
da cui escludere l’
enigma a favore di una cosa ben
quadrata o squadrata nei
suoi poli antitetici che risale
la china camminando all’
indietro e che si volge ora a
destra ora a manca cercando
il coacervo di scarti in cui
stallarsi e riprendere fiato,
a tutto questo e molto altro
si devono le innocenze di fatto
o le indolenze di comodo,
è sempre una questione di corpo,
aggiunse dopo una lunga pausa,
un corpo che c’
è, che è presente, che non può
essere guardato ma si riflette nel
nostro sguardo, rimbalza lungo il
vettore della linea che collega, scollega,
compone, scompone l’
accettazione e il rifiuto, e che
quindi si nega accettandoci, ci
accetta negandosi, questo corpo
discinto e oltraggiato, questo
senso del corpo che è il corpo del
senso, questi sensi acuiti, sempre più
sottili e penetranti, che deflorano il
corpo rendendolo sensato, questo
corpo significante sì, ma disastrato,
perennemente sconvolto e coinvolto nella
sua sterile disseminazione, che acquista
senso nella sua stessa devastazione, è
un corpo che produce danni, disse, perché
non dice ma è detto dal suo dire, perché non
scrive ma è scritto dal suo scrivere, è un
corpo condizionato
dal desiderio
o dal desiderio,
e lo diceva, l’
ha detto, o ha fatto finta di farlo, ora,
in questo qui senza luogo, e mentre lo
diceva si allenava a destituirsi, come se
dovesse, per forza di cose, abdicare in
favore di un qualcuno o di un qualcosa,
ma quale uno e quale cosa potrebbero
essere degni di detenere il potere?
non è una questione di trasferimento dal
basso verso l’
alto, né dell’
accettazione di ciò che non si può
dominare, il vero potere è abitare la
distanza che ci separa dall’
ascolto della nostra stessa voce che
ci sbeffeggia raddoppiando gli specchi in
cui giocare con la sua stessa inutilità, si
ascoltava quindi, o almeno si illudeva di
farlo, si ascoltava, l’
ha detto, l’
ha urlato ai quattro venti, e noi
abbiamo creduto di sentirlo,
di leggerlo, ma
ascolta tu, adesso, ascoltami: non ci
sono sequenze inevase con cui farsi
scudo dalle sciabolate che gli vengono
inferte e dietro le quali fa finta di
nascondersi
o di nascondersi,
è questa la verità, è
questa la menzogna, è questa la
sospensione del giudizio, è questa l’
impossibilità di spacciarsi come
autore, come inquisitore, come
sciamano di una parola che non può
costruire nient’
altro che vacue sequenze di finti
cunei e risibili cilindri, così, tanto per
far rinvenire ciò che non è ancora
caduto sulla carta ma che è già stato
consumato da sempre e per sempre,
per questo non dirà mai di essere lui l’
autore, per questo vi indirizzerà
verso di me, per questo riverserà su
di me
le sue colpe
o le sue colpe,
la désistance, che meraviglia!
to touch or not to touch (la dèsistance) – © Enzo Campi, 2020