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Enzo Campi – To touch or not to touch (estratto)

21 martedì Dic 2021

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Enzo Campi, Letteratura Necessaria, Poesia, Poesia contemporanea

to 
touch or not         to 
touch     che sia proprio questo il
problema?  e se non riesci a 
toccarti, e se non riesci a 
toccarmi, vorrei che tu fossi almeno
capace di fingere di ascoltare le 
voci che trasudano dal libro delle
occasioni mancate: così, come che
sia o sarà, così, come lo è stato da
sempre, si trascina a stento, arranca e 
balbetta, perde il contatto con 
ciò che non era mai riuscito a
toccare e genera il caso esemplare,
mai risolto, mai passato in 
giudicato, mai trascritto negli
annali, per quanto la condanna sia
sottesa, fibrilla sotto il derma
svilito e oltraggiato che vorrebbe solo
dilatare quell’
attimo in cui decise di consegnarsi al
supplizio, e rientra
dalla distrazione, sì, anela la 
distruzione, sì, favorisce la
distribuzione dei concetti abusati da
chi si crede edotto in materia di
crudeltà e si sottopone alla disseminazione, 
abiura il sorgivo, cerca lo schermo, 
ricalca la schermata, sì, forse è
proprio questo 
il problema
o il problema, 
non bisogna credere a
chi inneggia lo sfioramento, a 
chi schiva qualsiasi cosa che non
presenti almeno 
una crepa 
o una crepa, 
e adesso ascoltami, sì, tu che
ignori le lezioni di vita, tu che
dispensi colate d’
olio per far scivolare l’astante e
impedire il contatto, ascoltami:
il libro delle moltitudini inevase
arde nel primo fuoco, la
sferzata d’
aria disperde i lacerti
frammentando le parole, una
colata di cera ricopre i codici
celando alla memoria le voci di
chi un tempo conosceva il
gesto di condursi al di là, il
filone d’
oro si è esaurito da tempo
immemorabile, e adesso
smetti di ascoltarmi e guarda
dinanzi a te l’
azione che eccede il suo stato
inerte e si trasforma in un atto
la cui gravità rasenta l’
assoluto, guarda le catene che,
in un gesto di rivolta, liberano le
caviglie del testimone che, con un
gesto incauto e malsano, costruisce
una scatola all’
interno della prima stazione
depositandovi il suo giaciglio,
ecco, non abbiamo certezze da
spacciare come dogmi, la verità è
che non ci apparteniamo,
eppure una manciata di limo
con cui aspergere l’
anatomia primaria non può che
generare l’
affetto o l’
affezione, una stretta di 
mano condita con un 
abbraccio o una coltellata nell’
addome per saggiare la consistenza del
fiotto di sangue, une maille à l’
endroit et une maille à l’
envers, c’
est ça, fatevene una
ragione, facciamocene una
ragione, è solo una
questione di sapidità, disse, 
ed ebbe perfino il coraggio di
ripeterlo ad ogni curva, ad
ogni giro intorno 
alla torre 
o alla torre,          
tendendo la mano all’
impaurita babele, perdendo, per
strada, la lingua, sputando
fonemi impronunciabili ma 
così accattivanti, così incattiviti
dalla durezza della nuova lingua,
quella acquisita 
nel passaggio
o nel passaggio, 
nel travaglio 
o nel travaglio
da un livello all’
altro, da una guaina all’
altra, e non c’
è guaio o guado che possa
guastare l’
impalcatura che sorregge la
struttura, la macchina procede, disse,
tirare dritto per la propria strada è
sintomo di giustezza, basta aggirare il
profilo dell’
ombra che anticipa il passo, basta
sputare sulla saliva ancora fresca
rilasciata dal solito viandante, basta
schivare i ragni che si immolano
offrendosi come pasto al serpente,
è questo quello che si legge sul 
libro delle lingue morte, di notte, 
intorno al primo fuoco, aspettando che la
solita sferzata d’
aria imponga il suo credo spegnendo il
fuoco e silenziando le voci del
passato, bisogna che io lo dica, e 
bisogna che tu ci creda: 
una volta dato per certo il
linguaggio dell’
imbonitore, una volta decifrata la
crassa risata della schiera dei 
buffoni di corte, una volta nascosto il
maltolto nell’
anfratto più oscuro della risibile
caverna, una volta destituite le
ombre dal loro presunto potere
salvifico, una volta esaurite 
tutte le carte del mazzo, non ci
resterà che godere della nostra
stessa inutilità, reiterando ad aeternum il
canto della nostra voce devastata da
secoli d’inutili congetture,
la désistance: che impareggiabile emozione!


(Enzo Campi - Da "To touch or not to touch" - Inedito 2021)

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Si diceva fosse una storia come tante

31 domenica Mag 2020

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Enzo Campi, Filosofia, Poesia, Poesia contemporanea, Poesia italiana contemporanea, poetica, riflessioni, testi

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Pubblicato da enzocampi61 | Filed under De(al)locazioni figurali, Enzo Campi, Filosofia, Letteratura della crudeltà, Letteratura Necessaria, poesia, Poesia concreta, Poetiche del pensiero, Uncategorized

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Enzo Campi & Sonia Caporossi – Le nostre (de)posizioni

12 martedì Mag 2020

Posted by enzocampi61 in critica letteraria, Enzo Campi, Filosofia, poesia, Saggistica, Uncategorized

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Abbandono/Abbondanza, Adriano Engelbrecht, Alberto Bertoni, Alberto Masala, alessandro assiri, Alessandro Brusa, Arte-fatti Contemporanei, Bonanno Editore, Campi Magnetici, Che cos’è la poesia?, Comunicazione, Corrado Costa, Critica, critica letteraria, Cultura, Delocazioni, deposizioni, Deterritorializzazione, di Gian Maria Annovi, Dispiegamenti, Disseminazioni, Double Bind, Enzo Campi, Eventi, Fenomenologia, figure, Figure di Figure, Filosofia, Gabriella Montanari, Gian Maria Annovi, Gian Ruggero Manzoni, Giancarlo Sissa, Giorgio Bonacini, Giusi Montali, Il noi della poesia, Il terzo genere, Interferenze, L’io della poesia, Le nostre (de)posizioni, Letteratura, Lorenzo Mari, Maria Luisa Vezzali, Maria Pia Quintavalla, Mariangela Gualtieri, Mariangela Guàtteri, Martina Campi, Nuove Scritture, Poesia, Poesia ad Alta Voce, Poesia aumentata, Poesia concreta, Poesia contemporanea, Poesia Italiana, Poesia italiana contemporanea, Poesia Performativa, Poesia Visiva, poetica, Posizioni & Deposizioni, Post-Poesia, Prosa, riflessioni, Scritture, Segni, Sergio Rotino, Sonia Caporossi, Spaesamento, Teatro, testi, Vincenzo Bagnoli, Vito Bonito

Il volume è disponibile per l’acquisto sul sito della casa editrice

http://www.gebonanno.com/product/le-nostre-deposizioni/

 

 

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Il titolo del libro, Le nostre (de)posizioni (Bonanno editore), ricalca e deforma il titolo di un volume di Corrado Costa (Le nostre posizioni). Perché Costa? Perché Costa rappresenta una delle eredità non raccolte dalla contemporaneità poetica emiliana, perché era anch’esso emiliano, perché è citato in epigrafe, perché diceva che: “ Il luogo della poesia torna sempre fuori, anche se il poeta è senza luogo”, ma è anche vero che il luogo del poeta si trova là dove il poeta in quel determinato momento opera o, se preferite, fa opera-di-sé. Ed è anche per queste ragioni che, in quella che è la nostra delimitazione territoriale, i confini tra nativo e straniero dovrebbero essere definitivamente aboliti.

Si potrebbe dire, tanto per cominciare, che l’approccio di Enzo Campi sia francesista e quello di Sonia Caporossi sia germanista, almeno dal punto di vista filosofico. I lettori si troveranno di fronte a una prima parte più combinatoria e a una seconda parte più analitica. Ognuno dei due autori si getta nella visitazione di 10 poeti contemporanei che hanno qualcosa a che fare con l’Emilia Romagna, in qualità di nativi residenti, nativi deterritorializzati e stranieri adottati. Non sappiamo se si sentisse effettivamente il bisogno di un saggio che facesse il punto o  che disseminasse punti di vista e di ascolto ulteriori a ciò che viene «spacciato» come  poetico in Emilia Romagna. Fatto sta che quest’opera, almeno nelle intenzioni a monte, non intende colmare presunte lacune né tanto meno veicolare dogmi inalterabili  o concetti inappuntabili.

Si parte da due  punti fermi, forse gli unici dati di fatto dell’intera opera  (tutta l’opera verte difatti sull’attraversamento incondizionato del registro dei possibili): da un lato il rifiuto categorico di una scala oggettiva di valori e dall’altro lato la trans-territorialità.

In poesia, oggi come oggi, sarebbe deleterio nonché inutile redigere una classifica e operare in base a presunte differenze di valore. In poesia quindi non si dà oggettività, ma questo non vuol dire che si debba operare tenendo conto della propria soggettività, ovvero del proprio gradimento verso una o più poetiche specifiche. Difatti gli autori che vengono visitati dalle penne dei due critici sono stati scelti, tra i tanti papabili, solo per la possibilità che hanno le loro poetiche di ricondursi a una serie di concetti che vengono, di volta in volta, affrontati nel corso del lavoro.

Resta da precisare che gli autori non saranno trattati nello specifico di una determinata opera ma nell’insieme della loro produzione complessiva e, soprattutto, tenendo conto del loro modo di approcciarsi o di rendersi prossimi a quella che è l’unica costante a cui tutti i praticanti della scrittura dovrebbero relazionarsi, ovvero all’estensione, alla messa in atto di un gesto, in due sole parole: al conferimento di energia e tensione al testo. Il tutto all’insegna di una tecnica, di un metodo e quindi di una presunta maturità di linguaggio. Per queste (e altre) ragioni, in linea di massima,  non si è tenuto conto di autori sicuramente  meritevoli ma con all’attivo una sola opera o comunque poco più che esordienti.

Così come è giusto che sia, al di là dell’impostazione generale, essendo due le penne scriventi ci si troverà dinanzi a due diversi approcci e a due diverse focalizzazioni dei punti salienti da argomentare.

L’opera consta quindi di due parti. La prima parte  a cura di Enzo Campi tratta le poetiche di Alessandro Assiri, Giorgio Bonacini, Vito Bonito, Martina Campi, Mariangela Guatteri, Gian Ruggero Manzoni, Lorenzo Mari, Giusi Montali, Giancarlo Sissa, Maria Luisa Vezzali. La seconda parte, a cura di Sonia Caporossi, tratta le poetiche di Gian Maria Annovi, Vincenzo Bagnoli, Alberto Bertoni, Alessandro Brusa, Adriano Engelbrecht, Mariangela Gualtieri, Alberto Masala, Gabriella Montanari, Maria Pia Quintavalla, Sergio Rotino.

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Animalìe e agiografie

07 sabato Dic 2019

Posted by enzocampi61 in Coabitazioni, Enzo Campi, poesia, Uncategorized

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Alberto Vitacchio, Antonino Contiliano, Bologna in lettere, Bologna in Lettere - Il festival dei nostri tempi, Bottega della Poesia, Carla Bertola, Corrado Costa, deposizioni, Enzo Campi, Eugenio Lucrezi, Filosofia, Karine Marcelle Arneodo /Nanni Cagnone, Letteratura, Performance, Poesia, Poesia aumentata, Poesia contemporanea, Poesia italiana contemporanea, poetica, Reading, Repubblica-Napoli, riflessioni, Spoken, testi

La Repubblica – Napoli

Sabato 7 dicembre 2019

 

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Felice e inaspettata coincidenza, quella di trovarmi insieme a Corrado Costa a una sola settimana dalla serata-evento per Costa che sto organizzando per Bologna in Lettere  [https://www.facebook.com/events/436359163710308/ ]. In compagnia di ottimi autori quali Karine Marcelle Arneodo /Nanni Cagnone, Alberto Vitacchio, Antonino Contiliano, Carla Bertola, il tutto per iniziativa di Eugenio Lucrezi, curatore della Bottega della Poesia di Repubblica-Napoli, a cui vanno i miei sinceri ringraziamenti.

 

 

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Colgo l’occasione per ricordarvi il prossimo evento

della nuova stagione di Bologna in Lettere dedicato a Corrado Costa

 

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Gesti d’aria

24 giovedì Ott 2019

Posted by enzocampi61 in Enzo Campi, Letteratura Necessaria, poesia, Poetiche del pensiero, Uncategorized

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Alla fine della poesia, Enzo Campi, Filosofia, gesti d'aria, incombenze di luce, Letteratura, Poesia, Poesia contemporanea, Poesia e filosofia, Poesia italiana contemporanea, poetica, riflessioni, testi

Gesti d’aria

 

 

 

(Fiorì sfiorì l’ombra
in cui inabissai
la parvenza di luce
che il mio corpo
in un gesto d’aria
ancora offriva
all’incedere del suo
simulacro)

Si moltiplicano le domande per chi per
cosa o semplicemente perché ancora
persiste insiste la voglia sfrenata di
miniare a mo’ di ghirigoro la dissoluzione

della firma

e l’incoscienza della marca.
Ancora sui miei passi rinnovo il colpo
e tocco l’evanescenza delle voci che

cristallizzano l’aria

in cui sottrarsi al gesto.
Di poco in poco ritrapuntati e franti
riemergono inabissandosi i pulviscoli rubati
alla luce dell’altrui irriverenza.
Groviglio di linee estese le stesse diverse
conoscono e comprendono la pura elettricità
volta a sfaldare l’arteria e precipitano di testa
nella chōra austera dell’intervallo.
Carne al macello di traverso al seno:
il cuore si sfalda fibrillando sulla graticola.
Di foce in vece dell’intero sono io

ipso e fatto recto e verso: una bestia da soma

che s’involtola ed estrude il sorgivo fonema

in cui condursi al fondo.

 

Sia rianimato l’inanimato dall’algido fiato
in cui mescere il perlaceo succo della luce
che cade a perpendicolo e mi tace
mi dice di quell’aspra ligatura
che si consegna all’urto chiudendosi a riccio.

(Fiorì sfiorì la luce
in cui si stagliava
l’ombra sfrangiata
che il mio corpo
in un’incombenza d’aria
ancor mancò
al ritrarsi del suo
simulacro)

 

*

 

Una nota a latere.

 

 

 

fine, sia,
in fondo
al senza fondo

In un regime di luce. Puro sacrificio a consolidare.

Avanza la perdita, rinviene svenendo nella crudeltà primultima del sacrificio.

Essere-presso-di-sé sfuggendosi: traspropriazione della fine.

Si dirà: godo e sono, in quanto vengo e svengo nella ripetizione del gesto.

Arranca il sublime. Si disequilibria sull’orlo del baratro. Limite, reticolato, filo spinato. Propensione alla posizione, alla disposizione, alla deposizione. Solo una tentazione. Crollo. Libertà. Solo sfiorare e mai colpire.

E il rintocco a morto è pura inarrivabilità.

Quasi profetica, si rinnova l’aria in cui perdersi. Dispersione dei pulviscoli. Briciole dell’infinitesimo. Sforzo percettivo. Ancora un gesto.

In un regime d’aria. Impuro sacrificio a dissolvere.

Il cuore inscritto nell’occhio. Ma l’occhio è cieco. Cieca guida di ciechi. La cosa è cieca. Per questo si ripete nella differenza. Abulica iconoclastia dell’abbraccio che non tocca. Ancora una volta: solo sfiorare e mai colpire.

Cosa?

La cosa?

“Cosa è (una) cosa?”

La cosa stessa o il pensiero di una cosa che possa essere cosa?

Interrogazioni. Solo questo. E altro. Altro dal senso. Altro senso. In rapporto al sé e all’altro. Crudeltà e sacrificio.

Luci e sovresposizioni: l’urlo a delinquere!

Aria e sospensioni: il soffio a stagliare!

fine, sia,
in cima
all’immisurabile

 

 

© Enzo Campi, 2008-2009

 

 

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Enzo Campi – Una trama

02 venerdì Ago 2019

Posted by enzocampi61 in Enzo Campi, Filosofia, Letteratura contemporanea, Letteratura Necessaria, poesia, Uncategorized

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Enzo Campi, Filosofia, Letteratura, letture, Poesia, Poesia contemporanea, Poesia italiana contemporanea, poetica, Sequenze per cunei e cilindri, testi

una trama

dissero per poi

ribadirlo con l’

aggiustamento del

tiro con l’

arco ben teso di-

steso magari

allettato la

messa a

fuoco mancata la

messa a

riposo del

guerriero l’

esproprio del

fallo l’

avvento del

folle l’

appercezione la

catena patemica il

patema d’

animo tutti i

segni gli

elementi per

costruire l’

ordito per

sciogliere i

nodi i grumi un

flebile raccordo l’

uscita facilitata dall’

irrisolta dimora

verso cosa verso

dove verso i

punti dismessi o

solo dispersi nel

mare di

sabbia che

impasta il

palato nello

stagno in cui è

bandito il

riflesso una

macchinazione

pensò ma fece l’

errore di

urlarlo ai

quattro venti e

poi si affiancò

silente alla

serie dei

succubi

rannicchiati in

posizione fetale

 

*

 

è

solo rancido il

cibo di

tutti es-

posto per

tutti e da

tutti negato è

solo sapido l’

umore del

sangue che

imperla il

pezzo di

carne messo a

riposo sull’

altare di

turno come

simbolo del

gioco del

giogo e l’

occhio

rivede nel

rivolo la

storia di

tutti il

sadico destino

che incombe la

mera aporia del

cogito ergo non

sarò mai

altro che

questo o

quello deposto

tra un libro

consunto e un

sasso di

fiume alla

stregua di un

giocattolo

passato di

moda e

abbandonato nel

sacco dell’

indifferenziato

 

 

(Enzo Campi, dal poema inedito Sequenze per cunei e cilindri)

 

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Per un’agitazione della cosa letteraria – L’ultima novità di Bologna in Lettere

29 lunedì Apr 2019

Posted by enzocampi61 in Bologna in lettere, Enzo Campi, poesia, Uncategorized

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Bologna in lettere, Bologna in Lettere - Il festival dei nostri tempi, Bologna in Lettere 2019, Disseminazioni, Enzo Campi, Festival, Festival di letteratura contemporanea, Festival multidisciplinare di Letteratura Contemporanea, Filosofia, La persistenza dei grumi, Letteratura, Poesia, Poesia concreta, Poesia contemporanea, poetica, Prosa, Spoken, testi

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ULTIMA NOVITÀ DA BOLOGNA IN LETTERE.

UN LIBRO FRESCO DI STAMPA PER CHI VORRÀ CONTRIBUIRE ALLA REALIZZAZIONE DEL FESTIVAL.

Sebbene il nostro sia un Festival autoprodotto, noi non facciamo crownfunding, non organizziamo prevendite per valutare se sia più o meno conveniente realizzare una pubblicazione, non facciamo raccolte di fondi.

Noi, molto semplicemente, OFFRIAMO UN PRODOTTO.

Un‘opera realizzata appositamente per la VII edizione di Bologna in Lettere.

Un libro, già disponibile, in una prima edizione a tiratura limitata.

IL LIBRO VERRÀ INVIATO A CHI VORRÀ ACQUISTARLO E IL RICAVATO VERRÀ INTERAMENTE  UTILIZZATO PER CONTRIBUIRE AL FINANZIAMENTO DEL FESTIVAL.

 

 

“La persistenza dei grumi” (pp.64, formato quadrato 21X21) si può richiedere inviando una email a info@bolognainlettere.it  comprensiva dell’indirizzo completo a cui effettuare la spedizione e allegando copia di un bonifico di 12,00 € (comprese spese di spedizione) a favore di

Comitato Bologna in Lettere – B.I.L.

Banca: UNICREDIT SPA – BOLOGNA VIA BELLARIA
Codice Iban: IT24O0200802461000103539948
Codice BIC/SWIFT: UNCRITM1PN1

 

 

L’opera potrà essere acquistata anche dal vivo nel corso degli eventi di maggio.

Il comitato promotore del festival

 

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Uno sguardo di Cristiana Fischer su La statura della palma di Francesca Del Moro

06 sabato Apr 2019

Posted by enzocampi61 in Coabitazioni, critica letteraria, poesia, Uncategorized

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Anna Maria Curci, Canti di martiri antiche, Cristiana Fischer, Edizioni Cofine, Francesca Del Moro, La statura della palma, Poesia, Poesia aumentata, Poesia contemporanea, Poesia italiana contemporanea, sacrificio

 

Francesca Del Moro

La statura della palma. Canti di martiri antiche

Edizioni Cofine 2019.

 

 

 

 

 

Risulta dalla prefazione di Anna Maria Curci che questo lavoro di Francesca Del Moro, La statura della Palma, sia stato richiesto e che quindi si tratti della risposta a una proposta di impegnare la propria poesia su un tema. È qualcosa che accadeva in altri tempi, del lavoro poetico che non nasce in sé e per sé, ma si dedica.

Il tema, proposto a una donna oggi, è peraltro davvero interessante: rappresentare giovani donne che si sono giocate la vita in un conflitto assoluto, al prezzo di dover subire una folle violenza fisica. Perpetrata da uomini nel loro potere maritale e politico, come persecutori singoli, o tramite brutali esecutori, o attraverso la incontenibile violenza di un branco o orda eccitata.

Qualcosa che richiama una radice profondamente confitta anche nel presente.

Che quei fatti siano accaduti lo afferma la tradizione che ha trasmesso le Passioni dei santi e dei beati, e in quella tradizione vanno accolti come realtà avvenuta.

Per me lettrice si è trattato inizialmente di comprendere come la poeta Francesca avesse  affrontato il fatto di un tema proposto e non originato in sé. Successivamente ho voluto capire per quali vie la poeta avesse potuto suscitare in sé echi e coinvolgimenti con le protagoniste del libro, e infine sono approdata alle ragioni con cui ha potuto giustificare la loro scelta del martirio.

Sul piano di superficie del testo la mia lettura ha rilevato la padronanza linguistica e compositiva dell’autrice. Per ciascuna delle tredici poesie differente è stata l’”inventio” degli argomenti e la costruzione (dispositio) espositiva. Differenti ricorsi a figure di parola, di tessitura sonora, di impiego dello stile (sottile o veemente o elevato). Singolari esempi unici sono il fiato cantato della poesia di Cecilia e la danza macabra di Giuliana.

Le differenze di personalità tra le diverse sante sono agganciate alle Passioni della tradizione, che raccontando il martirio tracciano anche differenze di carattere, educazione, stato sociale. Di suo la poeta approfondisce le differenze tra le sante rappresentando le relazioni con un padre, con il figlio allattato e con la figlia partorita, il rapporto sororale nel caso di Perpetua e Felicita, quello magistrale tra Caterina e Regina martire.

Al livello più profondo del testo, quello della scelta del martirio per la fede, la poeta richiama valori propri della coscienza femminile oggi: la verginità e la castità intese come inviolabile interezza di sé anche oltre la profanazione e distruzione del corpo; la assolutezza del proprio scopo, o desiderio, aspirazione, che configura l’identità.

L’argomento del conflitto tra maschile e femminile è anche dramma dell’oggi – mentre è salvifico e trionfa nella dimensione interiore il rapporto amoroso con lo sposo, con il  fratello, il figlio.

Quel conflitto è direttamente il male. Satana si affaccia con Margherita. In veste umile e in pianto, chiede a Dio di giustificarsi per avere fatto di lui l’assassino, ma “vattene” grida Margherita, “la tua maschera pietosa non mi inganna”.

Un’altra voce si alza con l’ultima santa, i cui occhi penetrano la realtà. Anche la voce chiede al “respiro formidabile del padre/del padre che tace” conto del male.

Insieme a lui (“Ora s’invera in te la vista./Ti leggo tutti i nostri nomi/a uno a uno sulle labbra”) Lucia deve cadere: “Ma per me è già troppo tardi.// Non posso più rinunciare, non è tempo/per questo genere di ripensamenti.//Così cadranno insieme al capo/i miei occhi lucenti”.

(Cristiana Fischer)

 

*

 

 

 

 

AGNESE

 

 

 

Voi avete carni dure.

Coriacee pelli di testuggine.

Fauci di iene spalancate al riso.

Guizzi di lingue come anguille.

 

Siete costanti nell’assedio, furiosi nell’assalto.

 

Ma quale gloria avete, quale vanto

rubando con la forza quel che d’amore è un regalo?

 

Basta poco a fermare il cuore che non farete palpitare.

 

Mi strapperete la lingua ma non dirà il vostro nome

né formerete dalla mia bocca sanguinante un bacio.

Mi piegherete le braccia, eppure non vi cingeranno.

Se mi tagliate le mani, non mieterete carezze.

Non è passione la fiamma che mi colora le guance

né è resa questo abbandono.

Non sarà varco allo spirito alcuna breccia nella carne.

 

Fate un misero bottino di cose senza valore

il mio tesoro è nascosto.

 

Cristo ha già teso la mano verso il più alto ramo

dove, matura, l’uva vi dondola sul capo.

Solo lui succhierà i miei dolcissimi acini,

solo lui mi spremerà, mi farà vino al suo calice,

goccia a goccia mi berrà.

 

Lui vede ciò che vuole il cuore

ascolta il grido che s’innalza dall’abisso.

 

Rimane vergine chi non acconsente

e puro è il corpo se la volontà non cede.

 

Come foltissimo vello, come armatura a proteggermi

si allungano e mi vestono i capelli.

 

Ecco, le vostre mani arretrano, si congiungono in preghiera.

L’angelo annuncia la buona novella.

Uscite perdonati, uscite e predicate.

 

Non toccherete l’agnella.

 

*

 

 

 

FELICITA

 

 

 

Io sono l’assenza.

Sono la mancanza, il vuoto, il volto

per scherzo disegnato dalle ombre della notte.

Per scherzo, per celia verso il suo bisogno.

Il buco in cui precipita nel sogno.

La mano che non la coprirà

per proteggerla dal freddo. Sono

le braccia che si sciolgono, il diniego.

 

Rimango accanto a lei, così.

 

E la tengo qui con me, nel cielo

che rigonfia di spavento, nella terra

fecondata dalla mattanza.

Il suo pianto si dilata, ingrossa

sulle bocche che chiamano la morte

nelle fauci delle fiere, della vacca scalmanata.

 

Quanto è grande, Signore

il dono che mi hai dato e che ti rendo.

 

Appena in tempo per morire insieme ai tuoi

ho mosso un passo troppo breve

dal sangue di puerpera al battesimo di sangue

dall’ostetrica al reziario.

 

Ho un cerchio di braccia a contenere

le gambe disabituate al passo lieve.

Sono un frutto morbido, sgranato.

Un giorno lei saprà che non ho pianto.

 

Il sole a occidente annega nel suo sangue

presto anche il nostro scenderà.

 

Nell’ora in cui si mette il punto, nell’ora cupa della fine

offro i seni fiorenti ai morsi delle belve.

Ma a spezzarmi è un dolore più forte.

 

Perché io muoio a lei e lei mi muore.

 

Il corpo arretra in sé, da sé si esclude

data una figlia, nel dies natalis io mi do alla luce.

 

Ma quanto è grande, Signore, questa rinuncia all’amore.

 

Cado e Perpetua mi solleva, non trema il suo viso d’acciaio.

Si è ricomposta la veste, ha raccolto i capelli col fermaglio.

Dice in silenzio: “Non sarai femmina schiava del grembo

ricorda Abramo pronto al sacrificio

pensa a Medea forte nella vendetta.

Ama Dio più di lei, amalo fortissimamente”.

 

Dalla ferita aperta, ora mi genero alle tue mani

alle tue mani imbrattate delle nostre carni

le mani impregnate di tutti i nuovi nati.

 

Scende la quiete, il pianto tace.

La morte a me verrà più dolce di ogni dolcezza di madre.

 

 

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Enzo Campi, Alessandra Pigliaru – Le “tessiture” di Enrico De Lea

25 domenica Nov 2018

Posted by enzocampi61 in Coabitazioni, critica letteraria, Filosofia, Letteratura contemporanea, poesia, Poetiche del pensiero, Saggistica, Uncategorized

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Alessandra Pigliaru, Critica, critica letteraria, Dall'intramata tessitura, Enrico De Lea, Enzo Campi, Filosofia, Letteratura, letture, Poesia, Poesia contemporanea, Poesia e filosofia, poetica, riflessioni, Ruderi del Tauro, testi

 

 

 

Enzo Campi

 

Il calco, gli infinitesimi e la macchina semantica

Per tracciare le linee della poetica di De Lea non ci si può limitare solo all’opera che viene qui presentata, ma bisogna riferirsi, anche e almeno, all’opera immediatamente precedente: Ruderi del Tauro.

C’è chi sostiene che il raffronto sia pratica necessaria e indispensabile per qualsiasi approccio critico.

Qui si tratta di certificare una lampante continuità concettuale e stilistica. Dall’intramata tessitura è il figlio diretto di Ruderi del Tauro, ma cambiando l’ordine dei fattori il prodotto resta inalterato. Due opere intercambiabili quindi, due opere che propongono le stesse catene patemiche, le stesse cesure, gli stessi oggetti semantici.

Forse condizionato, in primo luogo da uno specifico passaggio dell’opera (“[…] i lumi come / dispositivi, neri e gaudiosi lumi in valle”) e in secondo luogo da un discorso già abbozzato nel mio Gesti d’aria e incombenze di luce (Genova, 2008), non parlerò di infinito, ma di infinitesimo, o meglio: degli infinitesimi.

   Cosa sono gli infinitesimi?

Alla stregua dei dispositivi che Deleuze riscontrava in Foucault, sono linee e punti volti a delineare e riconfigurare quella che potremmo chiamare superficie. Se fosse possibile traslare la teoria dei dispositivi su un piano esclusivamente letterario e se  la superficie fosse l’opera, gli infinitesimi rappresenterebbero le varianti che ripropongono l’uguale ridefinendolo.

Leggendo De Lea, come del resto già notato da altri, viene spontaneo pensare a un calco. Sembra quasi che una delle preoccupazioni dell’autore sia quella di rendersi a tutti i costi riconoscibile. La disseminazione, quasi seriale, di quelli che andremo a definire elementi primari (cave, crinali, armenti, torri, rocce, fortini, valli, dirupi, ciottoli, eremi, cortecce, ecc.), quegli elementi che puntualmente ritornano in un continuum letterario così preciso da sembrare quasi matematico, ci porta istintivamente a considerare l’opera come una macchina i cui ingranaggi sono sempre ben oliati dall’autore/untore. Questa pratica, come già accennato, non si verifica solo all’interno della stessa opera, ma anche tra un’opera e l’altra; Ruderi del Tauro si apre con la serie “acque reali” e nel primo componimento dell’intramata tessitura possiamo leggere: “si tace il ritorno dell’acqua”. Questa è solo una delle innumerevoli occorrenze, ma diventa interessante notare come l’epilogo dell’intramata tessitura proponga un doppio ritorno e certifichi ciò che andrò a dire più avanti: i “lumi gaudiosi” del cominciamento divengono, nell’epilogo, i “refusi delle prime luci”, e il passaggio “Verso una piena visione / dell’alfa materna, l’indizio-inizio / che al tauro riconduce” ci riporta direttamente ai luoghi della silloge precedente.   Allora, quel calco restituisce un’impronta chiara e ben definita. Quel calco è l’uguale cui ci si riferiva poc’anzi.

L’uguale presuppone una sorta di ripetizione (che, tra l’altro, è lampante), ma ciò che conta nella scrittura di De Lea è la differenza (seppur minima e, volutamente, minimizzata) che riconfigura gli infinitesimi del calco originario. Mai parola fu più adatta, perché la scrittura qui esaminata si pratica proprio in ciò da cui proviene: nei padri (reali, putativi o divini che siano), nella terra e nei suoi cantori/abitatori/seminatori, negli usi e nei costumi caduti in disgrazia o semplicemente dimenticati, nelle cose esposte al martirio del tempo, nei ruderi che preservano, idealmente, le voci degli avi, in poche parole da quell’urgenza (anche metafisica) che indirizza l’autore verso l’origine, allo scopo precipuo di rendersi sorgivo e quindi aperto.

   Qual è l’apertura che qui si vagheggia?

In realtà ce ne sono diverse, almeno una per ogni serie di dispositivi.

In questa poetica la disseminazione semantica si nutre di una memoria spesso enunciativa.

Non a caso le prime linee dei dispositivi foucaultiani si riferiscono alla «visibilità» e all’«enunciazione». Si dice (di) una cosa, in primo luogo, per mostrare quella cosa, ancor prima di conferirle una struttura e eventualmente un’essenza. Struttura ed essenza vengono dopo, quando De Lea fa scendere in campo le cosiddette «linee di forze», quelle linee che fanno da collegamento, rettificano, aprono ad una prosecuzione: così gli eremi cominciano ad ospitare gli anacoreti, i ciottoli disegnano le strade su cui imbastire il transito, le valli si riempiono di fumi e vapori, le cortecce mostrano le pieghe (i segni del vissuto) dei tronchi, le torri si ricoprono di muschio, ecc.  Così facendo De Lea traccia i margini della sua personalissima strada maestra e comincia a disegnare la tessitura del suo reticolato.

Ma il reticolato vero e proprio (quello che si potrebbe definire «intramato») comincia a delinearsi quando scendono in campo le cosiddette «linee di soggettivazione».

   Che cos’è una linea di soggettivazione?

Scomodiamo Deleuze:

“[…] una linea di soggettivazione è un processo, una produzione di soggettività all’interno di un dispositivo […] È una linea di fuga. Sfugge alle linee precedenti, se ne fugge. Il Sé non è né un sapere né un potere. È un processo di individuazione che si esercita su gruppi o su persone e si sottrae ai rapporti di forza stabiliti come pure ai saperi costituiti: una sorta di plusvalore”(G. Deleuze, Che cos’è un dispositivo?, trad. A. Moscati, Cronopio, Napoli, 2007, p. 17).

Ecco allora che il soggetto comincia a farsi largo tra pietre, ruderi, barche, alberi, abbandona la pura enunciazione e transita – non proprio in prima persona, ma spesso attraverso un processo di autoriflessività – nei suoi stessi luoghi mnemonici e semantici. Il soggetto, pur senza invadere la scena, diviene attivo, cerca di innestare una presenza dinamica in una struttura che fino a quel momento poteva definirsi contemplativa. Così le pieghe dei tronchi diventano piaghe, la rugiada diviene saliva o sperma, i canti diventano preci e orazioni. Tutto sembra fluire in una scansione ordinata e consecutiva.

Per quanto possa sembrare una contraddizione in termini, una delle presenze dinamiche più forti è rappresentata dalle ombre e dai morti (“i morti hanno la luce ultima e aurorale”). Le ombre sono quelle dei padri, che accusano, che pretendono attenzione, che continuano a dettare legge, che fomentano nei figli la disseminazione dei dispositivi attraverso i quali illudersi di poter fuggire dal peso della stirpe.

Il soggetto non si auto-investe della carica di regnante assoluto ma comunque si affanna nel cercare di riconfigurare l’asse paradigmatico dell’opera proprio attraverso l’uso libero (ma ordinato per scansioni cicliche e puntuali) degli infinitesimi, ovvero dei dispositivi volti a creare la differenza.

Il soggetto – per quanto rifratto, differito e, per così dire, riferito dagli oggetti semantici che popolano la saga –  ha volutamente usato le «linee di soggettivazione» per innestare il proprio seme di figlio nella terra madre (quella ove scontrarsi con tutte le stirpi), e i frutti che ne verranno sono, a tutti gli effetti, delle fratture.

In questa sorta di progressione semantica/matematica eccoci quindi giunti all’ultima serie dei dispositivi che è rappresentata proprio dalle «linee di incrinatura e di frattura».

Così si cominciano a moltiplicare le lapidi, i morti sfilano in processione, l’albero viene figurato a croce, l’acqua cede il passo al “mestruo delle valli”, sotto i sassi scopriamo il “verminaio”, ecc. Ma c’è un momento decisivo in cui tutto diviene chiaro (i lumi di notte disegnano “una corona cimiteriale”) e si comincia a comprendere che tutta quest’apologia della memoria (vissuta realmente, assimilata dai padri, o semplicemente dedotta e immaginata da tutto ciò che appartiene all’inverificabile) verte essenzialmente sulla perdita, perdita del sé  in un altro che non c’è più, in un tutt’altro che non si è ancora costituito, e quindi perdita dell’origine e insieme del divenire. Ma quel divenire cui De Lea aspira non può fare a meno di cibarsi dell’origine.

Il circolo è (in)naturalmente vizioso. Da qui il transito inesausto e masochista del seminatore che sparge il verbo della perdita, come esemplarmente sintetizzato a mo’ di dichiarazione di poetica qui

Lumi, segnali, segni, signature,

semi di luce, sementi del chiarore

illùne, un’assenza nel guscio,

nella vagina asciutta della terra,

insediamo per verba gli atti

dell’ostinazione della presenza vana, liberiamo

lo sguardo, ammutoliamo con i nostri morti.

Questa è la macchina perfetta di De Lea, una macchina poetica e poematica.

L’autore «sparisce» mirabilmente al suo interno. E a noi lettori non resta che cercarlo negli oggetti semantici che egli mette al lavoro.

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Alessandra Pigliaru

Parola, nome, relazione

Della parola

 

La poesia è figlia della notte, ricordava Jabès. Dovrà usare la voce per uscire dall’oscurità. Si farà trasparente la parola poetica, e non invisibile; raccoglierà i brandelli di ciò che in altro modo non può essere detto. C’è una necessità nel dire poetico che sovverte l’alba e si fa saldo coro degli opposti. Per poter vedere quell’indistinto che preme alla soglia del giorno si dovrà muovere con cautela verso un lume, oppure lasciarsi vincere dalla caduta in un altrove. C’è un doppio monito nelle parole di Jabès: da una parte si deve stare in guardia da chi canta immobilizzato dalla sorpresa e dall’altra ci si deve far piegare dalla notte come da una confidente a cui tendere le mani. La notte conosce l’intramata tessitura della memoria, del sofferto e cogente desiderio che dalla terra passa al verso. La nuova silloge di Enrico De Lea si fa largo nell’indistinto e caotico fragore dell’oscurità per dire, una volta per tutte, che non si arriva al mondo da soli. Neri e gaudiosi lumi in valle è la sezione di apertura dell’intero volume e la dichiarazione di un impossibile spaesamento. De Lea sa bene infatti che non ci si espone se non in quel noi che presagisce il passo a venire. Il coro è questo dirsi voce solo in quel noi. Da un plurale che dissolve l’aderenza dell’Io dunque, De Lea intona il proprio avvertimento. In quella terra raccontata dal poeta tuttavia le mani tese alla confidente sono come visitate da un linguaggio che ci parla; il dasein infatti sta nei versi come abitacolo di una perpetua veggenza. Quel ci che contraddistingue la tonalità emotiva è fonte sorgiva dell’essere-parola. Qui e ora o al di là?

Del nome

 

La nominazione è una faccenda assai complicata. Determina un soggetto che abbia coscienza di essere tale e una lingua da considerarsi familiare. Nominare le cose conforta sulla possibilità di mantenere in vita l’ossessione del passaggio. Eppure alla nominazione è sottesa un’ambivalenza linguistica di fondo. Insieme al nome, come suggeriva Blanchot, si decreta una sentenza di morte. Un trapasso necessario potremmo dire, proprio perché nominare riferisce di una scomparsa e insieme di una resurrezione nella parola. La poesia, che non soccombe all’ombra dell’algido concetto, mostra questo turbamento abbacinante del linguaggio in tutto il suo tremore. Nei pressi di una nominazione tradita e riconsegnata alla visione poetica, incontriamo l’opera di Enrico De Lea. L’iride si stempera e racconta di un occhio che sonda al di là. Il poeta diventa aruspice delle sue stesse viscere esposte in terra. Affidare al mare, senza un nome, / le ombre temibili del sonno, / invocando protezione, madre nera, / all’abbraccio dell’alba. Il nome diventa un’abrasione sulla lapide, un simbolo nella canicola del giorno a venire. Ma qual è il nome che va cercando De Lea? Quello del riconoscimento di sé oppure un nome alt(r)o, originario, che convochi il soggetto della parola? Certamente siamo in presenza di una salda andatura terrestre, di un solido colloquio con il proprio corredo familiare; ed è proprio a quest’ultimo che De Lea dà voce, in un coro inesausto di accadimenti che radunano a sé quarantena delle madri e accuse dei padri. Il nome è un sottofondo muto, qualcosa da rendere – indicibile – al rumore della propria trama d’infanzia. Il nome è anche quello agognato, quello a cui si stenta a credere se significa abbandono. Tentare l’ascensione / tra i sentieri invasi dalla storia, / dalle siepi di spine trionfanti. / Attrezzare non le mani, / ma il soffio con cui resisti / al sangue, ai graffi, / alle benvenute ferite. Il soffio come parola che travalica la storia,  sa congedare la morte e mettere a frutto la semenza della generazione. Quell’ascensione è un’eventualità abissale di redimere le trappole del falso sé, di impastarsi alla brocca sorgiva che tuttavia si sottrae. Continuamente.

Nomi da proferire come scale in pietra / che il piede nudo ascolta, divenuto / la leggerezza dell’infamia, / il segno del tradire degli eredi. Al corredo familiare che il poeta riunisce non si può sfuggire. La tradizione, come il tradimento, è un fardello da portare come un sintomo di mancata rispondenza alla propria tessitura. Ci si svesta dunque dal maldestro sonno della stirpe, ci si avventuri nella speculare dimora del linguaggio che, se non riferito all’altro, rischia di stare come peso morto del ricordo. Quel lume che doveva assistere al cedimento della notte diventa consapevolezza del sé.

Della relazione

 

Solo davanti al volto dell’altro il poeta arriva al due. In un respiro pieno e incessante. Perché il volto è segno di un’attualità interrogante; è fondo che perde la neutralità del noi per diventare tu. Il volto nelle Arie, seconda e poderosa sezione della silloge, non si attarda ad emergere e viene reclamato per dare statuto all’io. Traccio dei volti sopra certe rocce, / per primo il tuo e non lo disconosco, / anzi lo guardo, gli parlo a volte, lo nascondo. Il volto è dunque traccia dell’infinito di levinasiana memoria ma non c’è alcun appello alla responsabilità; dal volto non arriva alcuna preoccupazione che ripeta l’asfissia degli avi. Integrati i moniti genitoriali, compreso il rischio della dimenticanza, il poeta diventa artefice della propria esistenza. Quel volto disegnato, diventa il gioco dell’incontro con l’altro. Una possibilità di entrare in relazione che il coro non consentiva pienamente. L’altro è attore dell’incontro a venire che non può essere più rimandato. È qui che l’incubo dell’accusa e della quarantena si risolve per diventare flusso desiderante dell’altro. Un flusso nomade in cui i soggetti, almeno due, abitano il crinale dell’al di là. La relazione consente, poco più avanti, di mostrare che Siamo, nei padri, dentro le visioni / e, nelle madri, dentro carni e voci. Lo scacco della nominazione lascia qui spazio al dialogo, all’individuazione di sé traversando la prossimità. T’informo che alle volte il mondo è nuovo. / T’informo che ho saperi inusitati, su alberi / e su foglie, e sui cartoni lasciati dai dormienti, / e sugli spazi là intravisti all’alba. / T’informo pure che dimentico e ricordo, / che ho mani nascoste nelle tasche. / T’informo, inoltre, che – appena ieri – / indifferente andavo per burrasche. Il tu è mediazione tra sé e il circostante perché la percezione è doppia. C’è una parola poetica che costruisce il senso, manque à être che governa la distanza dal noi e non ci sa rassicurare – fortunatamente. Patirne lo slittamento significa toccare l’altro sparpagliandone le impronte. Perché d’acqua e farina sono quelle impronte che la scrittura tramanda.

E, pure, dico “grazie” a quel poco / di luce originaria, a quel che vedo / e che ieri vedevo. Calmo, rientro / nei possessi che l’occhio raduna. La parola poetica produce consonanze temporali, attutisce i riverberi dell’ombra e sa riferire di quella gratitudine originaria, rischiarata la radura umbratile dell’essere. Quel luogo notturno che Jabès esortava a percorrere e che De Lea si appresta a riunire. Dalla mano all’occhio. Dal nome al passo al di là.

 

**

Note critiche a Enrico De Lea

Dall’intramata tessitura (Smasher edizioni, 2011)

 

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Francesca Del Moro – Una piccolissima morte

06 sabato Ott 2018

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Cristiana Fischer, Edizioni Folli, Francesca Del Moro, LaRecherche.it, Poesia, Poesia contemporanea, Una piccolissima morte, Versante Ripido

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Francesca Del Moro

Una piccolissima morte

edizionifolli 2017, nuova edizione 2018 in formato ebook a cura di Versante Ripido e LaRecherche.it scaricabile qui:

http://www.ebook-larecherche.it/ebook.asp?Id=233

 

La piccola fiction ha due personaggi e due finali. Il primo personaggio è femminile e la fiction finisce brevemente con 4 versi: “spacca il corpo longitudinalmente io gli tremo intorno e lentamente mi separo”. La piccolissima morte del titolo è la morte di un piccolo corpo svuotato, e la resurrezione di un altro che si materializza intorno, nel procedimento contrario a quello dei crostacei e dei rettili che crescono dentro il vecchio involucro e lo lasciano vuoto. Qui il primo corpo si annulla e il nuovo aereo e pieno si installa. Un analogo processo di morte rinascita, era accaduto prima: “e poi ingoio il tuo seme ci fertilizzo il cuore e lo spezzo”. Ma era solo un aborto. Di corpi comunque tratta la fiction, per questo potrebbe anche essere una storia reale, di sesso, di cibo e di convenienze sociali. Ma è in realtà: “ciò che un breve sfiorarsi di parole scritte/sta facendo al mio corpo”. Una geometria spaziale di corpi solidi anima sulle pagine accostamenti scissioni e capovolgimenti (“tu mi metti/a rovescio”), e nella lingua contraddizioni (“china su di te/contenendoti”) e rivelazioni (“e come la bocca di dio/spalancherò il mio corpo”). Il secondo finale conclude col rovesciamento in farsa del secondo personaggio (e somiglia a una vendetta postuma) maschile. Collocato sulla scena di un bar, e poi in un interno un po’ laido, il corpo gli si sfà e diventa virtuale: la pancia da bevitore di birra, è un guardone (probabilmente “ruttolibero”), compiaciuto di telecomandare i suoi video di fanciulle che piangono. Dissolvenza, fine del libro. (Cristiana Fischer)

 

 

Testi scelti

 

 

Tu sei già dove devi,
io non faccio più niente, assecondo
ciò che un breve sfiorarsi di parole scritte
sta facendo al mio corpo.

 

*

 

Ho spremuto tutto il sole
in un calice e in padella
ho mescolato i rossi i verdi
i bianchi i viola, li faccio risuonare
con i canti di cicale. Oggi è il giorno
in cui verrai, il giorno della gioia,
lo spillo nel tempo, la data
che sparirà dai calendari.

 

*

 

China su di te
contenendoti
ti sono scesa
negli occhi
come pioggia
nel mare
annerito
dalla notte.

 

Cerco stelle
per nuotare
a riva.

 

L’acqua pesa
il fondo
mi lusinga.

 

*

 

Io un lunghissimo bacio

e lentissimo ti darei

fino a sparire in te

e tu in me

finché si disfa il tempo

si dissolve ogni cosa

e si fa buono il silenzio

che ora mi addolora.

 

*

 

Così semplicemente

mi corrispondevi

nel chiasmo dei corpi
nel dolce scivolare

delle mani e degli occhi.
Mi rispondi in due parole
e in due parole mi racconti
all’amico che ne ride.

Ci sono molti eh eh

dentro le vostre frasi
e un aggrottare

di sopracciglia.

Da qualche parte c’è
un triangolo di dita

che mi aspetta

e dietro il calmo sorriso

di chi mi spiegherà

che è finita, è finita, è finita.

 

*

 

Mi guarda. Mastica una gomma a piena bocca.
Si gratta la pancia da alcolista. Ha una birra in mano,
nell’altra tiene il telecomando. Onnivedente,
ci ha tutti in onda contemporaneamente.
E si diverte un sacco. Preme un tasto
e io mi gonfio d’amore. Si gode l’ennesimo
spettacolo del rifiuto. Spegne il televisore
solo dopo avermi guardata abbastanza
piangere con la fronte appoggiata al muro.

 

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