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Francesca Del Moro – Ex-madre – Nota critica di Serenella Gatti Linares

16 mercoledì Feb 2022

Posted by enzocampi61 in critica letteraria, poesia

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Arcipelago itaca edizioni, Francesca Del Moro

Non penso che si possa diventare Ex madre, come intitola perentoriamente il suo ultimo libro la nota poeta e critica Francesca Del Moro. Secondo me, si rimane madri per sempre, e le novantaquattro poesie del libro lo riaffermano in ogni pagina, come uno stigma infuocato. Madre dolorosa, come quella dei Malavoglia di Verga.

… la porta spessa quanto l’infinito, infinito ritornante di leopardiana memoria. Leopardi è stato il poeta della giovinezza, del dolore universale, delle rimembranze.

La lettrice, il lettore proseguono nella lettura, anche stando male a volte, senza potere interrompere. Fra liquido e solido, fra visibile e invisibile, fra immaginazione e concretezza, come afferma Luigi Carotenuto.

Poesie che attingono al buio, in cui sorprendentemente fa capolino la luce, anche se flebile o dura o riflessa.

Un altro elemento sorprendente, in questi tempi di relazioni difficili, è la consolazione, la fiducia che l’autrice ripone negli amici/che, di cui ho il piacere e l’onore di fare parte. Con loro è possibile condividere il dolore.

Il figlio aveva colori esuberanti, nello splendore dei suoi sedici anni, come avrebbe scritto Prévert. E lei, nonostante tutto, ne nomina nove: rosso, grigio, giallo, nero, bianco, oro, rosa, azzurro, miele.

Il rosso come simbolo di amore e di ferita insieme.

La luna piena, le stelle e il sole a picco resteranno per sempre, come in quei dannati giorni e notti di luglio. Anche se si confondono, e, a volte, improvvisamente scompaiono. Una natura non matrigna, così come è amica la bianca gatta.

La lotta fra gioia e dolore, giorno e notte, sole e luna, chiaro e scuro, silenzio e musica, angeli e demoni, caldo e freddo, luce e buio, vita e morte, caratteristica dell’esistenza e della poesia, si fa qui acerrima, all’ultimo sangue. Col predominio del buio e del dolore, ma con improvvisi, inaspettati squarci di luce.

Francesca si vede dal di fuori, si definisce morta in vita, con gli occhi rotti, con i morsi nel corpo, con il dolore appeso all’occhio, col vuoto di fronte. Ma la musica e la poesia non possono mancare.

Nella forma sono musicalità, uso delle rime e delle ripetizioni, sintesi e a volte un respiro più lungo, uso dell’aggettivo possessivo, segno di affettività, e uso arrotante della “r”, adatto alla rabbia e al dolore.

Nel grigiore…                                                                                                                                                                                                                                                                                  splende solo il ricordo.

Sopravvivi

come un’incrostazione sul muro.

i morsi al cuore e arrivare a sera.

L’amore è insopportabile.

la mano ferma

nel ricucire.

                                                                                                                   (Serenella Gatti Linares)

Poesie scelte

Ho stretto l’urna contro il ventre,
pesava pressappoco come allora.
Un figlio lo contieni sempre
e ogni minuto io contengo,
ogni minuto sento dentro
mio figlio che muore,
mio figlio che decide di morire.

*

Di colpo, tra un’email
e una traduzione, un caffè
e uno squillo del telefono,
il freddo nel petto, il brivido
in gola di spavento, sentire
che lui non c’è più.

*

Alla fermata della corriera,
sul bordo della strada,
sono solo una sagoma,
protetta dal buio della sera
e dai rumori delle auto,
dei camion di passaggio.
Posso piangere ora,
posso urlare, guardare
i fanali sfrecciare, capire
che basterebbe qualche passo
tra questo e la fine.

*

Anch’io

Sarò un tramonto
quel giorno,
un cammino lento,
un largo di cielo negli occhi,
il mare che mi respira.

*

Numero di figli: zero.
L’innocente ferocia
di un banale questionario.
L’amore mio immenso.
Zero.

Arcipelago itaca edizioni, Francesca Del Moro

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Uno sguardo di Cristiana Fischer su La statura della palma di Francesca Del Moro

06 sabato Apr 2019

Posted by enzocampi61 in Coabitazioni, critica letteraria, poesia, Uncategorized

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Anna Maria Curci, Canti di martiri antiche, Cristiana Fischer, Edizioni Cofine, Francesca Del Moro, La statura della palma, Poesia, Poesia aumentata, Poesia contemporanea, Poesia italiana contemporanea, sacrificio

 

Francesca Del Moro

La statura della palma. Canti di martiri antiche

Edizioni Cofine 2019.

 

 

 

 

 

Risulta dalla prefazione di Anna Maria Curci che questo lavoro di Francesca Del Moro, La statura della Palma, sia stato richiesto e che quindi si tratti della risposta a una proposta di impegnare la propria poesia su un tema. È qualcosa che accadeva in altri tempi, del lavoro poetico che non nasce in sé e per sé, ma si dedica.

Il tema, proposto a una donna oggi, è peraltro davvero interessante: rappresentare giovani donne che si sono giocate la vita in un conflitto assoluto, al prezzo di dover subire una folle violenza fisica. Perpetrata da uomini nel loro potere maritale e politico, come persecutori singoli, o tramite brutali esecutori, o attraverso la incontenibile violenza di un branco o orda eccitata.

Qualcosa che richiama una radice profondamente confitta anche nel presente.

Che quei fatti siano accaduti lo afferma la tradizione che ha trasmesso le Passioni dei santi e dei beati, e in quella tradizione vanno accolti come realtà avvenuta.

Per me lettrice si è trattato inizialmente di comprendere come la poeta Francesca avesse  affrontato il fatto di un tema proposto e non originato in sé. Successivamente ho voluto capire per quali vie la poeta avesse potuto suscitare in sé echi e coinvolgimenti con le protagoniste del libro, e infine sono approdata alle ragioni con cui ha potuto giustificare la loro scelta del martirio.

Sul piano di superficie del testo la mia lettura ha rilevato la padronanza linguistica e compositiva dell’autrice. Per ciascuna delle tredici poesie differente è stata l’”inventio” degli argomenti e la costruzione (dispositio) espositiva. Differenti ricorsi a figure di parola, di tessitura sonora, di impiego dello stile (sottile o veemente o elevato). Singolari esempi unici sono il fiato cantato della poesia di Cecilia e la danza macabra di Giuliana.

Le differenze di personalità tra le diverse sante sono agganciate alle Passioni della tradizione, che raccontando il martirio tracciano anche differenze di carattere, educazione, stato sociale. Di suo la poeta approfondisce le differenze tra le sante rappresentando le relazioni con un padre, con il figlio allattato e con la figlia partorita, il rapporto sororale nel caso di Perpetua e Felicita, quello magistrale tra Caterina e Regina martire.

Al livello più profondo del testo, quello della scelta del martirio per la fede, la poeta richiama valori propri della coscienza femminile oggi: la verginità e la castità intese come inviolabile interezza di sé anche oltre la profanazione e distruzione del corpo; la assolutezza del proprio scopo, o desiderio, aspirazione, che configura l’identità.

L’argomento del conflitto tra maschile e femminile è anche dramma dell’oggi – mentre è salvifico e trionfa nella dimensione interiore il rapporto amoroso con lo sposo, con il  fratello, il figlio.

Quel conflitto è direttamente il male. Satana si affaccia con Margherita. In veste umile e in pianto, chiede a Dio di giustificarsi per avere fatto di lui l’assassino, ma “vattene” grida Margherita, “la tua maschera pietosa non mi inganna”.

Un’altra voce si alza con l’ultima santa, i cui occhi penetrano la realtà. Anche la voce chiede al “respiro formidabile del padre/del padre che tace” conto del male.

Insieme a lui (“Ora s’invera in te la vista./Ti leggo tutti i nostri nomi/a uno a uno sulle labbra”) Lucia deve cadere: “Ma per me è già troppo tardi.// Non posso più rinunciare, non è tempo/per questo genere di ripensamenti.//Così cadranno insieme al capo/i miei occhi lucenti”.

(Cristiana Fischer)

 

*

 

 

 

 

AGNESE

 

 

 

Voi avete carni dure.

Coriacee pelli di testuggine.

Fauci di iene spalancate al riso.

Guizzi di lingue come anguille.

 

Siete costanti nell’assedio, furiosi nell’assalto.

 

Ma quale gloria avete, quale vanto

rubando con la forza quel che d’amore è un regalo?

 

Basta poco a fermare il cuore che non farete palpitare.

 

Mi strapperete la lingua ma non dirà il vostro nome

né formerete dalla mia bocca sanguinante un bacio.

Mi piegherete le braccia, eppure non vi cingeranno.

Se mi tagliate le mani, non mieterete carezze.

Non è passione la fiamma che mi colora le guance

né è resa questo abbandono.

Non sarà varco allo spirito alcuna breccia nella carne.

 

Fate un misero bottino di cose senza valore

il mio tesoro è nascosto.

 

Cristo ha già teso la mano verso il più alto ramo

dove, matura, l’uva vi dondola sul capo.

Solo lui succhierà i miei dolcissimi acini,

solo lui mi spremerà, mi farà vino al suo calice,

goccia a goccia mi berrà.

 

Lui vede ciò che vuole il cuore

ascolta il grido che s’innalza dall’abisso.

 

Rimane vergine chi non acconsente

e puro è il corpo se la volontà non cede.

 

Come foltissimo vello, come armatura a proteggermi

si allungano e mi vestono i capelli.

 

Ecco, le vostre mani arretrano, si congiungono in preghiera.

L’angelo annuncia la buona novella.

Uscite perdonati, uscite e predicate.

 

Non toccherete l’agnella.

 

*

 

 

 

FELICITA

 

 

 

Io sono l’assenza.

Sono la mancanza, il vuoto, il volto

per scherzo disegnato dalle ombre della notte.

Per scherzo, per celia verso il suo bisogno.

Il buco in cui precipita nel sogno.

La mano che non la coprirà

per proteggerla dal freddo. Sono

le braccia che si sciolgono, il diniego.

 

Rimango accanto a lei, così.

 

E la tengo qui con me, nel cielo

che rigonfia di spavento, nella terra

fecondata dalla mattanza.

Il suo pianto si dilata, ingrossa

sulle bocche che chiamano la morte

nelle fauci delle fiere, della vacca scalmanata.

 

Quanto è grande, Signore

il dono che mi hai dato e che ti rendo.

 

Appena in tempo per morire insieme ai tuoi

ho mosso un passo troppo breve

dal sangue di puerpera al battesimo di sangue

dall’ostetrica al reziario.

 

Ho un cerchio di braccia a contenere

le gambe disabituate al passo lieve.

Sono un frutto morbido, sgranato.

Un giorno lei saprà che non ho pianto.

 

Il sole a occidente annega nel suo sangue

presto anche il nostro scenderà.

 

Nell’ora in cui si mette il punto, nell’ora cupa della fine

offro i seni fiorenti ai morsi delle belve.

Ma a spezzarmi è un dolore più forte.

 

Perché io muoio a lei e lei mi muore.

 

Il corpo arretra in sé, da sé si esclude

data una figlia, nel dies natalis io mi do alla luce.

 

Ma quanto è grande, Signore, questa rinuncia all’amore.

 

Cado e Perpetua mi solleva, non trema il suo viso d’acciaio.

Si è ricomposta la veste, ha raccolto i capelli col fermaglio.

Dice in silenzio: “Non sarai femmina schiava del grembo

ricorda Abramo pronto al sacrificio

pensa a Medea forte nella vendetta.

Ama Dio più di lei, amalo fortissimamente”.

 

Dalla ferita aperta, ora mi genero alle tue mani

alle tue mani imbrattate delle nostre carni

le mani impregnate di tutti i nuovi nati.

 

Scende la quiete, il pianto tace.

La morte a me verrà più dolce di ogni dolcezza di madre.

 

 

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Francesca Del Moro – Una piccolissima morte

06 sabato Ott 2018

Posted by enzocampi61 in critica letteraria, poesia, Uncategorized

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Cristiana Fischer, Edizioni Folli, Francesca Del Moro, LaRecherche.it, Poesia, Poesia contemporanea, Una piccolissima morte, Versante Ripido

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Francesca Del Moro

Una piccolissima morte

edizionifolli 2017, nuova edizione 2018 in formato ebook a cura di Versante Ripido e LaRecherche.it scaricabile qui:

http://www.ebook-larecherche.it/ebook.asp?Id=233

 

La piccola fiction ha due personaggi e due finali. Il primo personaggio è femminile e la fiction finisce brevemente con 4 versi: “spacca il corpo longitudinalmente io gli tremo intorno e lentamente mi separo”. La piccolissima morte del titolo è la morte di un piccolo corpo svuotato, e la resurrezione di un altro che si materializza intorno, nel procedimento contrario a quello dei crostacei e dei rettili che crescono dentro il vecchio involucro e lo lasciano vuoto. Qui il primo corpo si annulla e il nuovo aereo e pieno si installa. Un analogo processo di morte rinascita, era accaduto prima: “e poi ingoio il tuo seme ci fertilizzo il cuore e lo spezzo”. Ma era solo un aborto. Di corpi comunque tratta la fiction, per questo potrebbe anche essere una storia reale, di sesso, di cibo e di convenienze sociali. Ma è in realtà: “ciò che un breve sfiorarsi di parole scritte/sta facendo al mio corpo”. Una geometria spaziale di corpi solidi anima sulle pagine accostamenti scissioni e capovolgimenti (“tu mi metti/a rovescio”), e nella lingua contraddizioni (“china su di te/contenendoti”) e rivelazioni (“e come la bocca di dio/spalancherò il mio corpo”). Il secondo finale conclude col rovesciamento in farsa del secondo personaggio (e somiglia a una vendetta postuma) maschile. Collocato sulla scena di un bar, e poi in un interno un po’ laido, il corpo gli si sfà e diventa virtuale: la pancia da bevitore di birra, è un guardone (probabilmente “ruttolibero”), compiaciuto di telecomandare i suoi video di fanciulle che piangono. Dissolvenza, fine del libro. (Cristiana Fischer)

 

 

Testi scelti

 

 

Tu sei già dove devi,
io non faccio più niente, assecondo
ciò che un breve sfiorarsi di parole scritte
sta facendo al mio corpo.

 

*

 

Ho spremuto tutto il sole
in un calice e in padella
ho mescolato i rossi i verdi
i bianchi i viola, li faccio risuonare
con i canti di cicale. Oggi è il giorno
in cui verrai, il giorno della gioia,
lo spillo nel tempo, la data
che sparirà dai calendari.

 

*

 

China su di te
contenendoti
ti sono scesa
negli occhi
come pioggia
nel mare
annerito
dalla notte.

 

Cerco stelle
per nuotare
a riva.

 

L’acqua pesa
il fondo
mi lusinga.

 

*

 

Io un lunghissimo bacio

e lentissimo ti darei

fino a sparire in te

e tu in me

finché si disfa il tempo

si dissolve ogni cosa

e si fa buono il silenzio

che ora mi addolora.

 

*

 

Così semplicemente

mi corrispondevi

nel chiasmo dei corpi
nel dolce scivolare

delle mani e degli occhi.
Mi rispondi in due parole
e in due parole mi racconti
all’amico che ne ride.

Ci sono molti eh eh

dentro le vostre frasi
e un aggrottare

di sopracciglia.

Da qualche parte c’è
un triangolo di dita

che mi aspetta

e dietro il calmo sorriso

di chi mi spiegherà

che è finita, è finita, è finita.

 

*

 

Mi guarda. Mastica una gomma a piena bocca.
Si gratta la pancia da alcolista. Ha una birra in mano,
nell’altra tiene il telecomando. Onnivedente,
ci ha tutti in onda contemporaneamente.
E si diverte un sacco. Preme un tasto
e io mi gonfio d’amore. Si gode l’ennesimo
spettacolo del rifiuto. Spegne il televisore
solo dopo avermi guardata abbastanza
piangere con la fronte appoggiata al muro.

 

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Premio Bologna in Lettere – IV Edizione – Note critiche Sezione C – Poesie singole inedite

14 lunedì Mag 2018

Posted by enzocampi61 in Bologna in lettere, Uncategorized

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Premio Bologna in Lettere

IV edizione

2018

 

 

SEZIONE C

Poesie singole inedite

Presidente della giuria

Enzo Campi

Giurati

Francesca Del Moro, Loredana Magazzeni, Giacomo Cerrai

Antonella Pierangeli, Maria Luisa Vezzali

FINALISTI

Elena Cattaneo, Mi culla mia madre

Fabrizio Bregoli, Alba pratalia

Mara Mattoscio, L’inascoltato, la rotaia è ciò che resta

Andrea Donaera, Il padre. Un’ustione

Elena Micheletti, Alzheimer

Alessandro Silva, Il cuore di mio figlio

PRIMO CLASSIFICATO

Andrea Donaera, Il padre. Un’ustione

 

 

 

 

 

 

ANDREA DONAERA

Il padre. Un’ustione

 

Se bisogna che la cosa si perda per essere rappresentata, “Il padre. Un’ustione” del poeta pugliese Andrea Donaera rappresenta un esatto meccanismo testuale in tre tempi per l’accerchiamento della perdita. Un meccanismo che utilizza la forma triadica non per tendere a un impossibile processo dialettico, bensì per mettere in gioco il martirio del soggetto simbolico attraverso la compilazione di un catalogo affettivo (i fumetti, i presepi, le matite, i temperini…) come regressione al profondo, complice la convocazione di tre autori esemplari della chiusura edipica: un contemporaneo esplicitato in esergo (Michele Mari, «adesso poteva tornare, e seppellirsi nel letto») e due pietre fondanti del moderno con le allusioni iniziali della «blatta sul tuo cuscino» (Kafka) e della «fontana tutta sangue» (Baudelaire). Nella prima sezione il «Grande Altro» paterno è già irrimediabilmente perduto all’esperienza e introiettato nell’immaginazione: «Ti immagino, ormai: e basta». La scrittura, per quanto franta, si trattiene all’interno della consolazione retorica, con la disseminazione di versi tradizionali, le anafore, le epifore, le ripetizioni che alludono al liturgico dell’atto di dolore («e quanto mi pento, quanto mi pento»). La seconda parte estremizza la regolarità metrica costruendosi di prevalenza sull’endecasillabo, ma tematicamente introduce i materiali sdrucciolosi dell’onirico. Qui il paesaggio si sfalda nell’acqueo («mare marcio», «meduse tremule»), ma il risultato dell’immersione in questo «bagnare incessante» è, concorde al discorso bilogico del sogno, un precipitato di polvere. Si arriva così alla terza sezione, dove è messo in scena l’agon («la lotta è… per non riconoscerti») e il destino di conflitto sbaraglia il verso per tramutarlo in un flusso continuo, o piuttosto continuamente interrotto da parentesi quadre, tonde, più che chiuse «socchiuse», virgole, il cozzo dei mai e dei sempre, tra sgretolamento e ricomposizione fino alla sospensione finale del soggetto in un’infanzia pietrificata nel desiderio («pulisci il mio mento sporco di gelato»). (Maria Luisa Vezzali)

 

 

 

ELENA CATTANEO

Mi culla mia madre

 

 

I tre testi offerti alla lettura da Elena Cattaneo ci dicono la complessità di una condizione esistenziale, quella delle donne, che non si limita a circoscrivere un orizzonte esperienziale privato ma si allarga a comprendere una più vasta umanità, fatta di solidarietà e condivisione. La carezza della madre che non riesce a toccare la pelle della figlia (Mi culla mia madre, /sono sfera rassicurante./ Non mi accarezza,/ sono fatta di idee, /ritagli di riviste./Senza ossa) diviene urticante tocco d’ortica, impossibilità di cammino sicuro (Questa donna ha mani d’ortica/ braccia imbavagliate/ piedi di sirena), ma anche riconoscimento di altri corpi, altre maternità lontane da noi eppure presenti e vive, della poesia “Antipodi”: (Ecco la mia carezza/ a dire che siamo uguali,/ madri agli antipodi,/sorelle nel cuore). Lo fa con una modalità di racconto visionaria e crudele: la visione non è affrontabile senza dolore, a molti “buca gli occhi”, diventa quell’Immemorabile dire che attiene alla perenne ricerca di sé e dunque alla poesia. Poesia che si guarda bene dallo scivolare liquido e inoffensivo del poetese, ma cerca snodi, slogature, punti di sutura che saltano per dire la complessa realtà del presente e le sue contraddizioni. (Loredana Magazzeni)

 

 

ELENA MICHELETTI

Alzheimer

 

 

Cos’è che caratterizza la poesia di Elena Micheletti? Forse una certa capacità di rappresentare che il mondo non è che una costellazione di frammenti di dolore, ciascuno dei quali ha bisogno di essere ridotto ad un lacerto comprensibile, o forse soltanto umanamente sostenibile, da  chi sia capace di volgervi uno sguardo consapevole, che va come quello di Elena dalla periferia del paesaggio al centro delle cose. Elena crede che la poesia serva anche a questo, proprio perché capace di evadere da un recinto tristemente razionale, anche quando sembra che non ci sia niente di ragionevole in certi accidenti della vita, per raggiungere una dimensione più alta, forse mitica. Ed ecco ad esempio che un fatto drammatico come una donna, forse una madre, colpita dall’ Alzhheimer, ridotta a una bambola che gioca con le bambole, viene sublimato in un delicato ritorno all’infanzia e ai suoi segni, ad una innocenza che tuttavia non può essere priva di rimpianti perché non cancella il dolore di chi scrive. La poesia di Micheletti è insomma sostenuta da una pietà naturale non priva di speranza, che non cede a nessun patetismo o a crepuscolari malinconie e che non si compiace nemmeno quando l’autrice parla di sé stessa e delle sue afflizioni, e da una notevole capacità di condensazione emotiva, che si esprime anche per mezzo di un linguaggio leggero ed essenziale. (Giacomo Cerrai)

 

 

 

 

FABRIZIO BREGOLI

Alba pratalia

 

 

La poesia di Fabrizio Bregoli, ombreggiata da un vivo senso della labilità delle cose e della loro fuggevolezza, è percorsa da un’ innata attrazione nei confronti della parola e del linguaggio, visti non più come strumento di dominio e controllo della realtà, ma come entità distruttrici che s’alimentano di finzione e di maschere in un desertico baluginare di vuoto: ”Anche il bianco sa ferire, s’annida/ un buio in quel suo lucore d’ossa.”(Alba pratalia). Disseminato di enigmi, perpetuamente alla ricerca di epifanie minime in una mancanza originaria di appartenenza, il versificare di Bregoli si distende in silenzi trattenuti, straniati da una sorta di inarticolato horror vacui che, nella biancheggiante apertura del bellissimo Alba pratalia, accompagna in dissolvenza il meccanico accanirsi della parola verso un graduale processo di dilatazione fonica. L’esigenza estetica da cui prende impulso la poesia di Fabrizio Bregoli non muove infatti dalla ricerca di una voce poetica depurata, siderale, lontana dal lessico della comunicazione quotidiana, ma dal dato sensoriale, dall’immanenza dei luoghi e dei personaggi che bussano alle porte del poetico per essere poi trasferiti sul bianco della pagina attraverso un impasto di immagini e suono: “C’è un mondo che reclama, un accadere/ indenne, laterale: il rinnovato/ corteo delle formiche, compiaciute/ della loro briciola…” (Alba pratalia).  E’ proprio l’osservazione di tutto ciò che cade nel giro dello sguardo, e che misura la finitezza della propria rovina, a rendere transitabile la parola e a far sì che si ricongiunga al proprio oggetto, attraverso una tensione lessicale che vede muoversi simultaneamente ritmo e timbro. La poesia si contrassegna infatti  per un’attenzione elettiva alla tecnica, sul filo d’una sapienza formale impercettibile, volta a costruire il verso con un’accurata opera di cesellatura, che disegna differenti piani, creando un affascinante e spericolato giuoco d’intersezioni e di rimandi, quasi che il filo del discorso si insegua e ricada continuamente su se stesso, procedendo a spirale piuttosto che in linea retta, vivisezionando il poeta stesso, in un continuo ed illuminante intersecarsi di poetica, meditazione critica ed autoriflessione. Si colgono, nei bellissimi testi qui presentati Alba pratalia,  IRINA KRATULOVA (Donor No. 34576148-2, BioTexCom* Inc. – Kiev), Pancabbestia, moduli compositivi desolatamente intessuti di una leggerezza tragica, quasi espressionista, coagulata in un roccioso realismo delle immagini che si stempera nella pur presente concretezza delle cose e nella sua aspra dissonanza: ”La dotazione è minima: un violino/ tarlato, un labrador, fornello a gas:/ numeri d’un terno mancato.” (Pancabbestia). Qui la desolazione spettrale di un viaggio al limite della sopravvivenza evoca un vitalismo macabro, dai tratti oscuri di un bagaglio coatto e difforme con cui affrontare l’esistere, manifestando montalianamente una  lontana funzione salvifica attraverso la memoria del reale “spilla da balia che raccorda/ il cielo al nulla” (Pancabbestia). L’immagine feticcio di questi testi, tutta giocata sulla connotazione di “un accadere prima che scada il tempo d’una conta” (Alba Pratalia metafora, d’altronde, dello sgranarsi del tempo come per un implodere e contrarsi di macerie e rovine) ha la consapevolezza amara e implacabile di uno stile che spazia senza sussulti dal registro alto a quello quotidiano, secondo un modus scribendi proprio di tutti i testi di Bregoli:”Qui si sconfina come a terra franca la satira di un sole, o la sua surroga” (IRINA KRATULOVA (Donor No. 34576148-2, BioTexCom* Inc. – Kiev). E’ proprio in questo spazio disumano, sapientemente contaminato di suggestioni inquietanti, sottese al tema della labilità irreversibile e tragicamente rivissuta di uomini e cose, che la poesia di Bregoli appare sempre più intessuta di echi fittissimi, che sovente gli servono per evocare scenarî di squallida e grigia quotidianità, di ascendenza eliotiana, nei quali le figure stesse della realtà, smessa ogni suggestione lirica, sono solo una pallida immagine dell’inferno terreno, la cui ambientazione è quella delle traiettorie desolate e livide di hopperiana nostalgia. Metafora e luogo elettivo d’una disperata vitalità, costituita per metà dal transitorio, dal fuggitivo e dal contingente, e per l’altra metà dall’eterno e dall’immutabile, la poesia di Bregoli lavora a strappare alle immagini del tempo la loro temporalità di eterno presente, costituendosi frammento distonico di una memoria simulacro di quell’aporia del nulla  che entra nel campo della poesia solo quando si allontana dal contingente. Passato e presente si allineano dunque in uno speciale tempo dilatato, bergsoniano, che viene a raggelarci in una modernità folgorante, costringendoci nel battito marziale di una dislocata lontananza solo apparente, come “la solitudine di tutte le porte/ dove ho costretto l’esilio dei passi.” (Antonella Pierangeli)

 

 

MARA MATTOSCIO

L’inascoltato, la rotaia è ciò che resta

 

 

I tre testi presentati da Mara Mattoscio appaiono omogenei, come tre movimenti di un unico poemetto. Ad accomunarli sul piano dello stile è l’utilizzo di un linguaggio ricercato e denso di figure del significante e del significato nonché la vivacità grafica data da versi e strofe di lunghezze e allineamenti differenti e dall’utilizzo di segni grafici quali barre oblique e trattini. Questi ultimi frammentano il discorso facendo coesistere possibili segmentazioni di lettura e suggerendo la possibilità di interpretare i versi come composti a loro volta di unità minori, sorta di sotto-versi. Sul piano tematico, la costante che lega i tre componimenti può essere individuata nella tensione verso una comunicazione che appare per molti versi frustrata. Già la parola “monologo” che dà uniformità ai titoli presuppone un unico parlante piuttosto che uno scambio, un parlante che fin dall’inizio sappiamo inascoltato. Termine, questo, a cui in realtà possiamo riconoscere una duplice valenza così come ad altre espressioni utilizzate nei testi: l’inascoltato da intendersi come sostantivo coincide con “il parlatore”, ma come aggettivo si riferisce a quell’oceano che rappresenta l’immensità dell’inesprimibile, dell’incomunicabile, potremmo dire dell’inconoscibile, che sfugge alla trasposizione verbale. L’oceano tra una conversazione e l’altra è ciò che vanifica gli sforzi del parlatore e dell’ascoltatore, già negati peraltro dalla parola “inesistente” che in posizione di quasi-anafora introduce le prime due strofe. Questa è a sua volta passibile di due interpretazioni: da un lato è ciò che non esiste e dall’altro, filosoficamente, ciò che inesiste. Viene il sospetto che sia il parlatore, che ci parla, sia l’ascoltatore deputato ad accogliere la nostra urgenza espressiva siano da individuarsi in qualche entità superiore, in qualche Dio, oppure, cosa non troppo diversa, un sé virtuale che possa “dire tutte / di luce le parole”, come recita un verso della seconda poesia. Il “dire” resta quindi un anelito, avente del resto come obiettivo l’opera, che con ironia viene catalogata nelle forme di “sovraromanzo supertrattato iperpoema” e “vita detta non detta o poco detta”. Qui si riconoscono i due stereotipati poli letterari, ovvero il tentativo di trascendere, esagerare, sublimare (sovra- super- iper-) oppure fare i conti con la vita nelle varie gradazioni con cui questa si rivela (contrapposizione che si riflette tra il sé virtuale in trionfo sulle idee e il sé di corpo trafitto dalla gente). L’ironia non manca in questi versi elaborati e si può percepire nella scelta del verbo “vociare” cui segue la serie allitterante “sillaba sibilo o silenzio”. Mentre le prime poesie si incentrano sulla dinamica del dire, l’ultimo componimento si arricchisce di elementi più concreti, dipingendo meticolosamente un contesto geografico con un procedimento a vortice che chiama e richiama in causa gli stessi elementi: il centro, i confini o margini, i monti e il mare con il porto. E i briganti, che compaiono più volte, protagonisti della storia. Il titolo ci rimanda alle cronache del brigantaggio in Abruzzo, che nella storia d’Italia ebbe spesso risvolti insurrezionali. Ma anche qui torna il tema dell’inascoltato con l’espressione “grande orecchio” già presente nella prima poesia. Un orecchio che, con una sinestesia, è definito “muto” e, ancora, ignaro. All’orecchio viene attribuito un atteggiamento proprio di un corpo intero, in cui si può riconoscere quello della vittima di un’esecuzione sommaria. Se l’orecchio lega il terzo componimento al primo, è il termine “seduta” a ricollegarsi al secondo, segnando il precipitare del ritmo nel fallimento. Nella seconda poesia, sulla sedia d’osso del “mai accadere” il tentativo di dire si smorza in un “lento, bianco, ammutolire” – si pensa allo “scendere nel gorgo muti” di pavesiana memoria – il terzo componimento si chiude con l’identificazione tra l’io e una Medusa seduta nella Storia, laddove la medusa stessa ha la duplice valenza di creatura acquatica (qui preceduta da altre specie) e di Gorgone mitologica, muta presenza passiva, che rimane in silenzio mentre si odono solo annunci di futuri immaginari gridati dai gabbiani. (Francesca Del Moro) 

 

 

 

ALESSANDRO SILVA

Il cuore di mio figlio

 

 

Una delle cifre stilistiche di Alessandro Silva sta nella capacità di ripensare e rielaborare in maniera articolata e coerente l’eredità trasmessa dalla storia, dal mito, dalle arti. Un procedimento tutt’altro che originale di per sé ma che nei versi di Silva si arricchisce sempre di particolare inventiva attingendo sovente a tradizioni poco diffuse. In questo caso il collante tra i testi presentati è dato dalla religione cristiana che, se da un lato è spogliata della sua aura di sacralità (dissacra è infatti una delle parole che aprono la prima poesia), non è tuttavia completamente ribaltata o satireggiata. Il tono liturgico è già impostato sin dal primo componimento dedicato a un’epifania mattutina, che si apre e si chiude con l’ammissione della nostra pochezza, del nostro essere biblicamente polvere. I versi di Franco Loi citati in epigrafe si fanno portavoce di questa dichiarazione di umiltà e il poeta giunge a sposarla con parole proprie alla fine, ricordando sé stesso come bambino religioso, ma meno generoso di un ateo, ovvero un “niente di memoria del Suo sangue”. Qui viene messa in dubbio la bontà della fede, una prospettiva già delineata dai versi precedenti in cui una serie di Angeli non crea bellezza ma entra in sintonia con la scompostezza del mattino, svergognato nei rumori e nella materialità del dormiveglia, nel disordine del letto. Il volo di Angeli che sputano calce e poi si mutano in pietre castigatrici non è che uno dei molteplici riferimenti biblici in questa sorta di anti-estasi mattutina, dalla scala di Giacobbe alla risurrezione di Lazzaro o di Cristo, dagli agnelli che rimandano al sacrificio di Isacco, fino agli episodi di Sodoma e Gomorra. Motivi religiosi sono presenti anche nella seconda poesia in cui l’essere umano si sposta dal centro dell’universo per confrontarsi con le altre creature, in questo caso i cani, esseri dotati di arcane capacità percettive, dato che “stanno coi nomi dei morti e capiscono il modo in cui si consuma lo spazio bianco delle cose”. Ma i cani hanno un’altra qualità che li rende superiori agli esseri umani: la fiducia. Sta a noi apprenderla da loro, mentre restiamo invischiati nell’eterna lotta tra bene e male, uno scontro che da spirituale diviene fisico, vedendo come antagonisti i demoni malati che ci cuciamo in corpo e il cuore di spine in fiamme di Gesù frenato nella nostra gola. Il cuore torna nel titolo dell’ultima poesia, suggerendo un’identificazione tra “mio figlio” e il figlio di Dio. Nell’immagine del corpo sovrastante un abisso, di cui si colgono solo la schiena e le braccia, sembrano profilarsi la forma della croce e la statua del Cristo Redentore di Rio de Janeiro. Questa figura sospesa sul vuoto, in cui Dio e l’uomo vengono infine a coincidere, si staglia al centro dell’ultima poesia che insegue il linguaggio della terza cantica dantesca (i tre componimenti potrebbero in effetti riprodurre la scansione dell’oltremondo dantesco), nel tentativo di dire l’indicibile paradisiaco attraverso immagini di grande bellezza: “la mira perfetta del cielo brilla”; “il precipizio di luceargento”, “la cima del fiore che gela orbite / in moto di particelle antiche”. Ma in questi versi pieni di luce, non manca la consapevolezza della nostra miseria. Sotto un cielo post-apocalisse il cui splendore è sporcato da piume lacere e insetti senz’ali, l’uomo sale al fiore sublime ma resta piccola creatura, insignificante, un seme minuscolo e sfibrato che tuttavia si richiama al Seme divino citato nella prima poesia e ha in sé la facoltà di generare.  (Francesca Del Moro) 

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Il banchetto di Rosaspina. Di virtù e maledizioni

01 domenica Ott 2017

Posted by enzocampi61 in Teatro, Uncategorized

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Alessandra Gabriela Baldoni, Anima, Banchetto, Caos, Cristina Campo, Di virtù e maledizioni, Etty Hillesum, Eventi, Fiabe, Francesca Del Moro, Fratelli Grimm, Giancarlo Sissa, Il banchetto di Rosaspina, Jung, Luna Marie, Mario Sboarina, Martina Campi, musica, Performance, Poesia, Registro poetico, René Daumal, riflessioni, Rosaspina, Simone Weil, Spirito, Tarocchi, Teatro, Trame sonore

Due parole su “Il banchetto di Rosaspina. Di virtù e maledizioni”.

 

 

 

Uno spettacolo di e con Alessandra Gabriela Baldoni. E con: Giancarlo Sissa, Mario Sboarina, Martina Campi, Luna Marie. Presso Generativa, Via Alessandrini 11, Bologna, 16 settembre.

 

 

Al banchetto di Rosaspina il pubblico è invitato a prendere posto intorno a un tavolo imbandito e ornato di candele. La fanciulla della fiaba tradizionale, qui ripresa dalla celebre versione dei fratelli Grimm, rivolge verso i convitati gli occhi chiusi, abbandonata su una sedia nei suoi abiti sontuosi. Dietro di lei un intreccio di musica e versi anticipa l’atmosfera malinconica del castello immerso nella quiete. La poesia chiede silenzio e una lunghissima attesa. Il narratore-anima racconta la storia che tutti conosciamo, mentre le carte dei tarocchi mostrate ai presenti ne scandiscono i vari momenti investendoli di un carattere mistico-divinatorio. Tutto si compie così come sappiamo, ma nel momento in cui la principessa sprofonda nel sonno la fiaba trova un nuovo corso.
Il suo sguardo si apre sul sogno, ed è a questo punto che ha inizio il vero banchetto, il vero incontro tra noi e lei. Solo dialogando con la propria anima, incarnata sulla scena, Rosaspina potrà arrivare a una rinascita. Solo dopo aver conosciuto il buio potrà ritrovare la luce. Sprofonderà nelle oscure correnti del caos finché a condurla al risveglio non sarà il bacio di un principe bensì l’umiltà.
Gli autori di questa suggestiva rivisitazione sono partiti dal chiedersi che cosa accada nei cento anni di sonno e sogno di Rosaspina e per ricostruire il suo percorso onirico hanno studiato le più antiche origini della fiaba e attinto ai capisaldi poetici, filosofici e spirituali del Novecento. Tra le fonti di ispirazione sono presenti Etty Hillesum, Simone Weil, Cristina Campo, René Daumal ma a emergere con forza è soprattutto la lezione di Jung. Ad accompagnare Rosaspina nel suo viaggio sono infatti lo spirito del tempo e lo spirito del profondo, di cui si tratta nel Liber Novus, e l’anima, che per Jung rappresenta l’elemento inconscio, l’archetipo della vita stessa, l’interiorità contrapposta alla maschera. Riprendendo una metafora antichissima, l’anima viene qui identificata con un uccello e ad essa si arriva solo distaccandosi dalle cose esteriori, per mezzo del sapere del cuore, di cui il testo junghiano dice che si può raggiungere solo vivendo appieno la propria vita.
Lontana dalla figura stilizzata e passiva della fiaba, Rosaspina prende corpo intervenendo sul proprio destino. Sceglie di sfuggire alla solitudine dorata del castello salendo alla torre per pungersi all’arcolaio e nel sonno compie un percorso interiore non privo di conflitti che la porterà ad abbracciare la vita con pienezza, vincendo con l’umiltà il vincolo stesso rappresentato dalle proprie virtù. Reagisce così all’influsso degli astri (le dodici fate alludono tra l’altro ai segni dello zodiaco), alla predestinazione simboleggiata dai tarocchi e muove alla ricerca del proprio cielo, quello in cui la sua anima potrà librarsi.
Il pubblico è coinvolto sapientemente nella vicenda, grazie alla recitazione impeccabile degli attori, al fascino ipnotico del registro poetico che è stato scelto per il testo, alle trame sonore raffinate e rarefatte che punteggiano la rappresentazione. Attraverso Rosaspina è portato così a varcare la soglia che conduce dentro di sé, a intraprendere a sua volta un cammino che proseguirà anche dopo il riaccendersi delle luci nella sala (Francesca Del Moro)

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Concorso di Scrittura creativa e traduzione letteraria per le Scuole

18 domenica Dic 2016

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beat generation, Bologna in lettere, Bologna in Lettere 2017, Concorsi Letterari, Concorso, Concorso di Scrittura creativa, Festival di letteratura contemporanea, Festival di Poesia, Francesca Del Moro, Interferenze, Loredana Magazzeni, Maria Luisa Vezzali, traduzione letteraria per le Scuole

Concorso di Scrittura creativa e traduzione letteraria per le Scuole

Interferenze

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In occasione della quinta edizione del Festival di Letteratura Contemporanea “Bologna in Lettere”, con il patrocinio del Comune di Bologna, e dell’Omaggio alla Beat Generation che avrà luogo all’interno del programma, abbiamo il piacere di invitare gli studenti del suo Istituto a partecipare al

 

Concorso di scrittura creativa, critica e traduzione letteraria

Interferenze

 

 

Approfittando del fatto che nel 2017 cade il ventennale delle dipartite sia degli scrittori William Burroughs e Allen Ginsberg, Bologna in Lettere farà una dedica speciale alla Beat Generation e a tutto quello che in ambito letterario e artistico si è costituito, in termini di cambiamento, a partire da quel movimento generazionale.

Dopo la lettura di alcuni testi della Beat Generation, che potrà avvenire singolarmente o più auspicabilmente all’interno della classe con la guida dell’insegnante di riferimento, i ragazzi potranno cimentarsi in una delle quattro proposte del concorso, ovvero potranno:

 

  • scrivere una poesia (max 60 versi) ispirata allo stile (sperimentale, evocativo, fortemente condizionato da elementi dell’oralità come il ritmo, ripetizioni e figure di suono) e ai contenuti (pacifisti, antirazzisti e attenti alle condizioni esistenziali dei giovani) del movimento beat;
  • scrivere un breve racconto (max 6000 battute) ispirato alle vite “maledette” degli artisti degli anni Cinquanta, non necessariamente limitato agli scrittori beat, ma estensibile anche ai loro fertili, seppure a volte turbolenti, rapporti con gli artisti dell’Espressionismo astratto come Jackson Pollock e Willem de Kooning (anche quest’ultimo scomparso nel 1997);
  • comporre un contributo critico sulle interferenze tra l’operato degli scrittori della Beat Generation e quello degli artisti dell’Espressionismo astratto come Jackson Pollock e Willem de Kooning;
  • produrre una traduzione letterariamente efficace di una poesia di Allen Ginsberg, accompagnata da un breve testo teorico che giustifichi le scelte fatte.

 

Gli elaborati dovranno essere inviati entro il 15/03/2016 in formato elettronico come allegato .doc o .docx all’indirizzo bolognainlettere@gmail.com con oggetto “concorso scrittura creativa-sezione scuole”, accompagnati dalla scheda di partecipazione debitamente compilata e firmata. Il corpo della email dovrà contenere nome, cognome, data e luogo di nascita, indirizzo di residenza, recapito telefonico, istituto di frequenza, titolo dell’opera.

PER SCARICARE LA SCHEDA D’ISCRIZIONE

scheda-scuole-2017

scheda-scuole-2017-pdf

PREMI

La giuria, composta da Francesca Del Moro, Loredana Magazzeni e Maria Luisa Vezzali, individuerà 3 finalisti tra cui verrà poi decretato il vincitore. I 3 finalisti riceveranno un attestato e saranno invitati a presentare pubblicamente il loro elaborato durante il Festival, in un confronto con docenti e artisti specializzati sul tema.

 

CONDIZIONI

I contributi dovranno essere inediti.

Per inediti si intende mai pubblicati in forma cartacea.

La sezione riservata alle Scuole non prevede alcuna tassa d’iscrizione.

 

ESITI

Gli esiti del Concorso verranno comunicati pubblicamente entro il 15/04/2017 sul sito di Bologna in Lettere, sulla pagina facebook del Festival e su vari canali telematici.

 

 

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Il Direttore artistico di Bologna in Lettere   Enzo Campi

La Responsabile del Concorso/Scuola  Prof.ssa Maria Luisa Vezzali

 

 

 

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Emilia Barbato su “Gli Obbedienti” di Francesca Del Moro

31 martedì Mag 2016

Posted by enzocampi61 in Letteratura contemporanea, poesia, Uncategorized

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Cicorivolta edizioni, critica letteraria, Emilia Barbato, Francesca Del Moro, Gli Obbedienti, Letteratura contemporanea, Letteratura Necessaria, Poesia, Poesia contemporanea

Incapaci di ragionare le cose in misura globale, polverizzati tra pratiche quotidiane e corsa all’inutile, abbiamo omesso una reazione di difesa al graduale processo di sottrazione del valore umano. Aspettavamo forse una minaccia improvvisa per difenderci? Un predatore feroce facilmente riconoscibile, magari un dinosauro? L’aggressore peggiore ci ha colti intorpiditi, ci ha riuniti con la sua ‘mano invisibile’. L’idea che il “Libero” mercato potesse contribuire a elevare il benessere sociale mediante l’offerta di beni a costi sempre più bassi sottendeva una trappola che siamo stati incapaci di cogliere.

Oggi la maggioranza dei lavoratori “vive in quieta disperazione” come direbbe Henry David Thoreau, ciascuno, nel suo piccolo, materia prima del ciclo, è lo stesso gesto di ogni giorno, la parte minuta di una catena di montaggio, il ‘pezzo’ facilmente ricambiabile. Dopo l’automazione del settore primario, del secondario siamo passati all’automazione dei servizi, dell’umano.

Già nel 1833 in Eugenia Grandet Honoré de Balzac scriveva:

“Gli avari non credono nella vita futura, poiché per essi il presente è tutto, e questo stesso concetto diffonde una luce orribile sul mondo odierno, ove piú che mai il denaro domina leggi, politica e costumi. Istituzioni, libri, uomini e dottrina cospirano insieme a scuotere la fede in un’altra vita, fede su cui da diciotto secoli si basa l’edifizio sociale. Tuttavia ci troviamo quasi al medesimo punto, poiché l’avvenire che ci attendeva al di là del requiem fu trasportato nel presente. Giungere per fas et nefas al paradiso terrestre del lusso e delle gioie vanitose, pietrificare il cuore e macerarsi il corpo nell’ansia di beni passeggeri, come un tempo si soffriva il martirio per acquistare i beni eterni, ecco l’idea di tutti, l’idea stabilita e concreta in ogni luogo, persino nelle leggi, le quali domandano all’uomo: Cosa paghi? invece di dirgli: Cosa pensi?… Se una dottrina simile si diffonderà dalla borghesia al popolo, che ne sarà del mondo?”

Quell’ipotesi di dottrina paventata nel romanzo oggi permea tutto.

Cosa fare dunque? L’essere umano deve spogliarsi della propria identità egoistica e ritrovare l’altro, lottare contro la pressione e le strutture reprimenti, tornare alla difesa di sé e del mondo. Come dice Flavio Ermini in Essere il nemico bisogna “diventare prossimi a una parola che sia capace di farsi civitas, luogo, dimora; mantenendo a ogni crocicchio il dubbio sulla strada da prendere, senza arrendersi alle illusioni”.

Francesca Del Moro, autrice del libro “Gli obbedienti”, scrive superbamente le ore spese negli open space sotto grigi soffitti, dimenticando il tempo, i pensieri, ci racconta le ore veloci trascorse a ripetere gli stessi ruoli. Sempre più minuteria, sempre più in tanti, tutti pronti alla sostituzione, tutti a sgomitare, a mangiarsi il prossimo.

Manifestare il proprio disagio è un atto dovuto. Magicamente le coscienze dolgono, c’è qualcuno ancora in grado di mobilitarsi, di foggiare la parola come un’arma, di “lanciarla”. Ecco, “lanciare”: mi piace usare questo verbo pensando alle poesie di Francesca Del Moro. Il ritmo dei suoi versi è veloce come quello di un proiettile che raggiunge l’obiettivo. Il lettore resta fulminato da una pioggia di colpi precisi, rapidissimi, scariche elettriche che non riescono a non allarmare il cervello, il corpo.

Francesca sceglie di ‘reagire’ con i suoi bellissimi versi, raggiungendo il doppio obiettivo di urlare la miseria della condizione umana e affrancare la poesia dal torpore. Si ritorna a dar voce e attenzione alla poesia sociale, all’uomo, al pensiero, da cui così tanto siamo stati allontanati.

 

XVIII

Quando l’amico gli porse il piatto,
pianse come un bambino.
“Non riesco a mangiare” disse
“quel che non ho guadagnato.”

 

XXXIX

Non c’è più scampo,
perfino il cielo
è color del soffitto.
Non servono sbarre
né serrature,
qui tutto è aperto
ma tu resti dentro.

 

LXXIV

L’umanità si muove
ritmicamente ripetitivamente
più o meno alle stesse ore
si dipana e si contorce
come la lunghissima coda
di una bestia mostruosa.

 
“Guadagnerai il pane col sudore della fronte”
sta scritto nella Bibbia, e stamani la barista
ti ha detto di aver letto sul giornale
“Dovremmo tutti lavorare
anche domenica e i festivi,
è per questo che le cose vanno male”.

 

Desideravo leggere “Gli obbedienti” sin da quando in rete sono apparsi alcuni haiku. Colpisce la scelta dell’autrice di ricorrere a questo stile metrico, quasi ci fosse una precisa volontà di corromperne le regole. Francesca non contempla tenendo per sé le considerazioni, mantenendo l’equilibrio, ma sceglie di indignarsi apertamente, di protestare quasi come una giovane ribelle giapponese, dando voce a quella nuova generazione così lontana. Rompe gli schemi scegliendo toni accesi, in netta contraddizione con l’estetica classica. Nel rigore della metrica la natura è sostituita dai molesti rumori umani. La pace di un ruscello diventa il gorgoglio di uno stomaco, i ritmi umani entrano nella calma degli haiku e presagiscono tormenti, sotterranee combustioni, il turpe della facciata, l’uomo moderno in un mondo senza Dio, senza scampo, un mondo di disillusioni. Gli haiku di Francesca ricordano le pennellate scarnificate di Francis Bacon, l’armonia degli ideogrammi è deformata dal dolore, dall’isolamento, dalla solitudine.

 

Jobs Haiku

 

La vita esatta

la corsa della cavia
dentro la gabbia

 

Haiku-da-fé

 

È questa fogna
di stomaci vocianti
la nuova gogna

 

Haiku del mito

 

Calme Cassandre siete
senza la gloria
della tragedia

 


 

Haiku-dilemma

 

Se invece l’arte
fosse l’oppio dell’occhio
che non sopporta?

 

Haiku della pecora

 

Anche se è nera

o vestita da lupo

sta in fila e bela.

 

Social Haiku

 

Brucia le cornee

questo proliferare

di speakers’ corner.

 

Happy Haiku

 

Muovi la bocca
che appare nello specchio
e ti divora.

 

Eye-ku

 

Qui si spalanca
l’occhio dell’universo
e si contempla

 

L’intera raccolta è una morsa che non dà tregua e non può che favorire un risveglio. È un libro a mio avviso notevole, oltre che per la scrittura matura e pulita anche per il fardello di cui l’autrice ha voluto farsi carico. Una raccolta che arricchisce e accomuna, che ritorna all’origine. Come dicevo all’inizio di queste mie riflessioni mobilitarsi in poesia è necessario e proprio di pochi, pertanto simili pubblicazioni vanno promosse con calore e sostenute a spada tratta sperando che possano costituire un seme nuovo da coltivare, un modello per future varietà (Emilia Barbato).

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Tu se sai dire dillo – IV Edizione

27 giovedì Ago 2015

Posted by enzocampi61 in Bologna in lettere, Coabitazioni, critica letteraria, Enzo Campi, Eventi, Festival di letteratura contemporanea, Letteratura contemporanea, Letteratura Necessaria, poesia

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agit-prop-poetry, Alessandro Brusa, Andrea Inglese, Antonio Devicienti, Biagio Cepollaro, Bologna in lettere, Christian Tito, coabitazioni, critica letteraria, Enea Roversi, Enzo Campi, Eugenio Gazzola, Eventi, Festival di Letteratura, Festival di Poesia, Filosofia, Francesca Del Moro, Francesco Forlani, Francesco Tomada, Gianni Montieri, Gianni Sassi, Giorgio Mascitelli, Giovanni Cospito, Giulia Niccolai, Giuliano Mesa, Giusi Drago, Italo Testa, Jacopo Galimberti, Jacopo Ninni, L'Arcolaio editore, Letteratura contemporanea, Lucio Fontana, Luigi Di Ruscio, Mario Giusti, Mario Sboarina, Martina Campi, Massimiliano Damaggio, Milano Poesia, Milanopoesia, Nadia Augustoni, Nino Iacovella, Poesia, Poesia concreta, Poesiadafare, Poetiche del pensiero, Recital, Ricognizioni artistiche, Rita Galbucci, Segnali, Segni, Sistemi d'attrazione, Sonia Lambertini, Spazio Ostrakon, Tu se sai dire dillo, vincenzo frungillo, William Xerra

cop

 

TU SE SAI DIRE DILLO

Quarta edizione

 

17-18-19 settembre 2015

Galleria Ostrakon

via Pastrengo 15, Milano

 

La rassegna Tu se sai dire dillo, ideata da Biagio Cepollaro e giunta alla quarta edizione, è dedicata alla memoria del poeta Giuliano  Mesa, scomparso nel 2011.

A leggere le sue poesie, oltre a Biagio Cepollaro, vi sarà anche Andrea Inglese.  Quest’anno i temi saranno: l’esperienza di Milanopoesia(1983-1992) raccontata da Eugenio Gazzola e da alcuni protagonisti come l’artista William Xerra, la poetessa Giulia Niccolai e dall’organizzatore Mario Giusti; il festival dei nostri anni  Bologna In Lettere a cura di Enzo Campi ; l’Artventure parigina di Lucio Fontanaricostruita da Jacopo Galimberti, l’opera elettronica di Giovanni Cospito eseguita al Teatro Verdi, situato proprio di fronte allo Spazio Ostrakon.

E ancora avranno spazi dedicati: la figura unica diventata leggenda del poeta-operaio Luigi Di Ruscio tratteggiata da Christian Tito; la nascita del blog  Perigeion e i poeti Massimiliano Damaggio, Antonio Devicienti, Nino Iacovella, Gianni Montieri , presentati da Francesco Tomada, e infine, la poesia di Nadia Augustoni, Giusi Drago, Francesco Forlani, Vincenzo Frungillo, Italo Testa e la prosa di Giorgio Mascitelli.

*

Programma completo

17 Settembre, Giovedì

 

ore 18.00

 Biagio Cepollaro e Andrea Inglese leggono Giuliano Mesa

ore 18.30

 L’artventure parigina di Lucio Fontana a cura di Jacopo Galimberti

ore 19.30

Le poesie di:

Nadia Augustoni

Giusi Drago

Francesco Forlani

Vincenzo Frungillo

Italo Testa

 

I racconti di :

Giorgio Mascitelli

ore 20.30

Intervallo

ore 21.00  Il pubblico è invitato a spostarsi al Teatro Verdi, di fronte allo Spazio Ostrakon

Opera elettronica di Giovanni Cospito su testi di Biagio Cepollaro

 

*

18 Settembre, Venerdì

ore 18.00

Gli anni di Milanopoesia

a cura di Eugenio Gazzola

 

Saranno presenti:William Xerra, Giulia Niccolai, Mario Giusti

 

ore 19.30

Intervallo

ore 20.00

 

Lettere dal mondo offeso: per Luigi Di Ruscio

a cura di Christian Tito

 

Letture dal romanzo epistolare

Proiezione video

Testimonianze

 *

19 Settembre, Sabato

ore 18.00

Perigeion e i poeti

a cura di Francesco Tomada

 

Massimiliano Damaggio

Antonio Devicienti

Nino Iacovella

Gianni Montieri

Francesco Tomada

 

ore 19.30

Intervallo

 

ore 20.00

Il presente di Bologna in Lettere

a cura di Enzo Campi

“Agit-prop-poetry”, un intervento di Enzo Campi

“Sistemi d’Attrazione”, proiezione di un video montato con i materiali della terza edizione del Festival Bologna in Lettere

“Sì, si può”, recital multimediale con Alessandro Brusa, Martina Campi, Francesca Del Moro, Rita Galbucci, Enea Roversi, Sonia Lambertini, Jacopo Ninni, Mario Sboarina, Enzo Campi

 

 

 

L’immagine in copertina è di Biagio Cepollaro, Predella-Dittico, dipinto su due pannelli. Tecnica mista su mdf, cm 80 x 50 complessivi,2009.Coll privata, Milano

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Le conseguenze della musica

17 domenica Mag 2015

Posted by enzocampi61 in poesia

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Cicorivolta edizioni, Francesca Del Moro, Le conseguenze della musica, Poesia, Serenella Gatti Linares

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Francesca Del Moro, Le conseguenze della musica, Cicorivolta, 2014

(recensione di Serenella Gatti Linares)

 

Non è una poesia che lasci indifferenti quella di Francesca Del Moro. Ho dovuto leggere e rileggere e ogni volta ne ero turbata e scoprivo nuovi significati. Andavo avanti nella lettura delle cento poesie de “Le conseguenze della musica” incuriosita ed emozionata, come se fosse un romanzo, di cui andare a vedere come va a finire. Mi sono chiesta il perché. In parte ha a che fare con l’“identificazione”, in rapporto a sentimenti ed eventi provati anche da me. Ma non basta.

Quello che mi ha colpito di più, quasi lasciandomi un groppo in gola, è l’anelito, la tensione spasmodica e continua verso l’amore “irrealizzato”, inappagato, dietro delle porte, in perenne distanza e attesa. Parole abusate come “cuore” e “amore” riprendono slancio e vitalità. In mezzo a lacrime e dolore, rispunta il sorriso, scappano le risate, simili a quelle dei cani. Perché Francesca è piena di vita, è un’”Alice nel paese delle meraviglie”, perché Bologna è ancora un luogo che possiede l’allegria della giovinezza, che permette di “volare”.

Ne emerge il ritratto di una donna “dura y fragil”, brace che brucia sotto la cenere. Il “buco nero” della depressione avanza, ma predomina, poi, l’istinto vitale. “… e io saprò trasformare/ le lacrime in parole”. I sentimenti sono espressi con una sorta di pudore, ma saltano fuori fra le righe.

Dietro il brillio dei versi si nascondono temi complessi e profondi. Dietro l’ironia, c’è l’amarezza.

Le grandi passioni di Francesca, che anch’io condivido, sono: musica, libri, cinema, teatro, pittura, cibo. A proposito della musica, cito semplicemente le ultime frasi del mio romanzo “Era ed è ancora”: “… la musica, poiché essa si insinua dove nessuna parola, nessuno sguardo, nessun piede possono penetrare, ah, la musica continuerà per sempre a donarmi emozioni”. E in questo “patchworck” di elementi, in questa contaminazione di arti, si potrebbe perfino… morire contente.

I temi principali sono:

l’amore: sesso, carezze, tenerezza, baci, abbracci, sorrisi, bontà, gentilezza, sensibilità, amicizia… “… io sto bene/ anche solo quando passa il calore dal mio corpo a un altro”

la musica: suoni, canzoni, rock, chitarra, concerti, giradischi, vinile…

la natura: vento, “sole bianco”, neve, sera, notte, mattino, terra, stelle, mare, “pioggia gentile fa brillare il buio”…

Ma c’è posto anche per: cinema, teatro, ballo, festa, vino, bisessualità, tempo, rabbia, respiro, pozzo, incomunicabilità, specchio, casa, famiglia, figlio, lavoro, pendolarismo, abbandono, speranza, mancanza di autostima, maternità, solitudine…

Largo spazio è dato al corpo: occhi, naso, labbra, zigomi, pelle, mani, spalle, petto, pancia ( il nostro secondo cervello…), sguardi obliqui e strabici sulla realtà dalle mille facce… Le mani inciampano… come i piedi. “… anche il mio corpo/ è una chiazza che si allarga”.

Infatti, le parole-chiave sono, fondamentalmente: luce, silenzio, parole, musica, sole, mani, occhi, respiro, casa, porta, cuore, amore.

Gli oggetti di uso quotidiano sono presenti in questa poesia al femminile: tazze del latte, bicchieri, bottiglie, pattumiera, foto, letto, divano, cappotto, caramelle…

Ci sono i cinque sensi e i colori sono pochi, ma ci sono: verde, grigio, azzurro, rosso, bianco, nero.

Tanti i riferimenti letterari, espliciti o inconsci: Goliarda Sapienza (“L’arte della gioia”),  Erica Jong (“Paura di volare” ), Leopardi, Pascoli, Orwell, Baudelaire, Prévert, Neruda, García Marquez… E quelli musicali, dagli anni ’60-’70 a oggi: Placebo, De André, Vanoni ( “Tristezza per favore vai via…”; “È uno di quei giorni…” ), Paoli (“Sassi”), Mina, Vianello, De Crescenzo…

Instabile e incerto è il tentativo di collegare in armonia ed equilibrio gli opposti o contrari: luce/buio o ombra; vita/morte; bianco/nero; dentro/fuori; silenzio/musica; pieno/vuoto; gioia/dolore; sorrisi/lacrime; tutto/nulla; piccolo/grande; coraggio/paura; leggero/pe(n)sante; terra/cielo; basso/alto; nord/sud; io/tu o noi; presenza/assenza; vivere/non vivere…

Per quanto riguarda la forma, la musica non è solo nei contenuti, ma pure nel ritmo e nella musicalità del verso. Sono usate la metrica e le figure retoriche (esempio: “sole bianco”): ripetizioni, metafore, rime, assonanze, consonanze, ossimori, sinestesie.

Il lessico è ricco, costituito sia da termini acculturati, sia dal francese, sia da vocaboli quotidiani o da… parolacce attuali, come, del resto, sono spesso i temi (codice “elaborato” e “ristretto”). Poesie di media lunghezza, che stanno ben in guardia dal pericolo dell’accumulo. Le mie preferite sono quelle più sintetiche ed essenziali: “Chissà se lui sente/ la carezza dei miei occhi/ sulla sua schiena/ ogni volta che esce”.

Solo ogni tanto parole e concetti sono scontati o già sentiti, un po’ troppo discorsivi e colloquiali. L’uso della “e” e della “i” permette pause e rallentamenti, per riprendere fiato nel ritmo dei versi, per riflettere, per aggiungere il proprio parere personale negli spazi bianchi e vuoti della pagina.

Poesia “narrativa” che mescola aspetti teorici e pratici, che cura i dettagli con leggerezza. Poesia in cui predominano le “a” del femminile. La poesia salva la vita, fa volare lievemente ciò che è pesante, perfino il proprio corpo. Lascia un “segno” per sempre, o almeno si spera. “… fa che i tuoi versi/ si aprano un varco/ nella vita degli altri/ ogni volta che possono”.

Poesia che può far male, ma anche illuminare, perché è intrisa di luce.

 

 

 

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Di & con Daniele – Per Massimiliano Chiamenti

26 mercoledì Nov 2014

Posted by enzocampi61 in Eventi, Letteratura contemporanea, poesia, Ricognizioni, Uncategorized

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Tag

Alessandro Brusa, Di & con Daniele, Eventi, Francesca Del Moro, Lorenzo Romanazzi, Mario Sboarina, Massimiliano Chiamenti, Oralità e poesia, Performance, Reading, Spazio 100300

xx cc

 

Sabato 29 novembre, alle ore 19 presso il locale 100300, in via Centotrecento 1 a Bologna, verrà ricordato il 47° compleanno di Massimiliano Chiamenti con una performance poetico-musicale ispirata al poemetto inedito “Di &con Daniele”.

A seguire microfono aperto per letture e ricordi di Massimiliano.
Regia: Francesca Del Moro
Voci recitanti: Alessandro Brusa, Lorenzo Romanazzi.
Musica: Mario Sboarina

“non piangi quasi mai
ma per tua fortuna e mia
a volte lo fai ci riesci
così bambino
dolcissimo tu a volte
ancora più bello e tenero se possibile
e così improvvisata goffa e maldestra
come mamma consolatrice io
possibile
che in certi momenti quando pur di distrarti o consolarti
mi dimentico perfino della mia crisi di astinenza cronica
e
vorrei mostrarti quanto unico è tutto questo
e quanto poeta io sono se poi lo sono
non esistano
parole più forti e originali
che il logoro
“ma non sai quanto ti amo”?”

Massimiliano Chiamenti (Firenze 1967-Bologna 2011) è stato poeta, filologo e cantante/performer.
A partire dal 1993, ha pubblicato svariate raccolte di poesia: Telescream (Cultura Duemila, 1993), User-friendly (David Seagull productions, 1994), x/7 (Dadamedia, 1995), p’t (post) (Gazebo, 1997), Schedule (City Lights Italia, 1998), Maximilien (City Lights Italia, 1999), e (autopubblicazione, 2000), songs of being and not being here (autopubblicazione, 2001), 30 slide poems (autopubblicazione, 2002), rhythms 2003 (autopubblicazione, 2003), le teknostorie (Edizioni Segreti di Pulcinella, 2003, Zona, 2005), free love (Giraldi, 2007), adel & c. (Fermenti, 2008), paperback writer (Gattogrigio Editore, 2009) evvivalamorte (Le Càriti, 2011), egiemme (Polìmata, 2011) e l’antologia di racconti Scherzi?(Giraldi, 2009). Nel 1995 ha ricevuto il premio “Città di Corciano” da Edoardo Sanguineti. Alcune delle sue poesie sono apparse sulle riviste “Alias”, “Argo”, “Forum Italicum”, “Gradiva”, “Idioteca”, “Italian Poetry Review”, “mumble:” e “Semicerchio”.
Sospese tra la narrativa, la poesia classica e la canzone, le sue poesie in versi liberi affrontano con un linguaggio diretto e una sfrontata sincerità temi quali il sesso, la droga, l’emarginazione e le molteplici forme della barbarie contemporanea.
Su commissione di City Lights, ha tradotto poesie di Lawrence Ferlinghetti, Ed Sanders, Anne Waldman e Philip Lamantia.
In qualità di studioso, si è occupato di filologia italiana e romanza, studiando in particolare testi di Dante Alighieri, Giacomo Leopardi e Pier Vittorio Tondelli. Le sue numerose pubblicazioni scientifiche includono i volumi Dante Alighieri traduttore (Le Lettere, 1995) e numerosi articoli sul personaggio dantesco Jacopo Rusticucci (“Lingua Nostra”, 1997), e sull’attribuzione a Dante della canzone trilingue “Ai faus ris” (“Dante Studies”, 1998, “L’Alighieri”, 2009).
Ha collaborato all’edizione on-line del vocabolario dell’Accademia della Crusca. Ha curato le edizioni critiche del Comentum di Pietro Alighieri alla Divina Commedia (University of Arizona Press, 2002) e delle canzoni del troviero francese Colin Muset (Carocci, 2005).
Come cantante è stato membro delle band Emme, Honey Please, Delidoz, e più recentemente ha contribuito a lanciare il progetto “Antagonia”. Dal 1990 al 2011 si è esibito come lettore/performer delle sue poesie, spesso avvalendosi della collaborazione di musicisti.

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