Francesca Del Moro – Ex-madre – Nota critica di Serenella Gatti Linares

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Non penso che si possa diventare Ex madre, come intitola perentoriamente il suo ultimo libro la nota poeta e critica Francesca Del Moro. Secondo me, si rimane madri per sempre, e le novantaquattro poesie del libro lo riaffermano in ogni pagina, come uno stigma infuocato. Madre dolorosa, come quella dei Malavoglia di Verga.

… la porta spessa quanto l’infinito, infinito ritornante di leopardiana memoria. Leopardi è stato il poeta della giovinezza, del dolore universale, delle rimembranze.

La lettrice, il lettore proseguono nella lettura, anche stando male a volte, senza potere interrompere. Fra liquido e solido, fra visibile e invisibile, fra immaginazione e concretezza, come afferma Luigi Carotenuto.

Poesie che attingono al buio, in cui sorprendentemente fa capolino la luce, anche se flebile o dura o riflessa.

Un altro elemento sorprendente, in questi tempi di relazioni difficili, è la consolazione, la fiducia che l’autrice ripone negli amici/che, di cui ho il piacere e l’onore di fare parte. Con loro è possibile condividere il dolore.

Il figlio aveva colori esuberanti, nello splendore dei suoi sedici anni, come avrebbe scritto Prévert. E lei, nonostante tutto, ne nomina nove: rosso, grigio, giallo, nero, bianco, oro, rosa, azzurro, miele.

Il rosso come simbolo di amore e di ferita insieme.

La luna piena, le stelle e il sole a picco resteranno per sempre, come in quei dannati giorni e notti di luglio. Anche se si confondono, e, a volte, improvvisamente scompaiono. Una natura non matrigna, così come è amica la bianca gatta.

La lotta fra gioia e dolore, giorno e notte, sole e luna, chiaro e scuro, silenzio e musica, angeli e demoni, caldo e freddo, luce e buio, vita e morte, caratteristica dell’esistenza e della poesia, si fa qui acerrima, all’ultimo sangue. Col predominio del buio e del dolore, ma con improvvisi, inaspettati squarci di luce.

Francesca si vede dal di fuori, si definisce morta in vita, con gli occhi rotti, con i morsi nel corpo, con il dolore appeso all’occhio, col vuoto di fronte. Ma la musica e la poesia non possono mancare.

Nella forma sono musicalità, uso delle rime e delle ripetizioni, sintesi e a volte un respiro più lungo, uso dell’aggettivo possessivo, segno di affettività, e uso arrotante della “r”, adatto alla rabbia e al dolore.

Nel grigiore…                                                                                                                                                                                                                                                                                  splende solo il ricordo.

Sopravvivi

come un’incrostazione sul muro.

i morsi al cuore e arrivare a sera.

L’amore è insopportabile.

la mano ferma

nel ricucire.

                                                                                                                   (Serenella Gatti Linares)

Poesie scelte

Ho stretto l’urna contro il ventre,
pesava pressappoco come allora.
Un figlio lo contieni sempre
e ogni minuto io contengo,
ogni minuto sento dentro
mio figlio che muore,
mio figlio che decide di morire.

*

Di colpo, tra un’email
e una traduzione, un caffè
e uno squillo del telefono,
il freddo nel petto, il brivido
in gola di spavento, sentire
che lui non c’è più.

*

Alla fermata della corriera,
sul bordo della strada,
sono solo una sagoma,
protetta dal buio della sera
e dai rumori delle auto,
dei camion di passaggio.
Posso piangere ora,
posso urlare, guardare
i fanali sfrecciare, capire
che basterebbe qualche passo
tra questo e la fine.

*

Anch’io

Sarò un tramonto
quel giorno,
un cammino lento,
un largo di cielo negli occhi,
il mare che mi respira.

*

Numero di figli: zero.
L’innocente ferocia
di un banale questionario.
L’amore mio immenso.
Zero.

Enzo Campi – To touch or not to touch (estratto)

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to 
touch or not         to 
touch     che sia proprio questo il
problema?  e se non riesci a 
toccarti, e se non riesci a 
toccarmi, vorrei che tu fossi almeno
capace di fingere di ascoltare le 
voci che trasudano dal libro delle
occasioni mancate: così, come che
sia o sarà, così, come lo è stato da
sempre, si trascina a stento, arranca e 
balbetta, perde il contatto con 
ciò che non era mai riuscito a
toccare e genera il caso esemplare,
mai risolto, mai passato in 
giudicato, mai trascritto negli
annali, per quanto la condanna sia
sottesa, fibrilla sotto il derma
svilito e oltraggiato che vorrebbe solo
dilatare quell’
attimo in cui decise di consegnarsi al
supplizio, e rientra
dalla distrazione, sì, anela la 
distruzione, sì, favorisce la
distribuzione dei concetti abusati da
chi si crede edotto in materia di
crudeltà e si sottopone alla disseminazione, 
abiura il sorgivo, cerca lo schermo, 
ricalca la schermata, sì, forse è
proprio questo 
il problema
o il problema, 
non bisogna credere a
chi inneggia lo sfioramento, a 
chi schiva qualsiasi cosa che non
presenti almeno 
una crepa 
o una crepa, 
e adesso ascoltami, sì, tu che
ignori le lezioni di vita, tu che
dispensi colate d’
olio per far scivolare l’astante e
impedire il contatto, ascoltami:
il libro delle moltitudini inevase
arde nel primo fuoco, la
sferzata d’
aria disperde i lacerti
frammentando le parole, una
colata di cera ricopre i codici
celando alla memoria le voci di
chi un tempo conosceva il
gesto di condursi al di là, il
filone d’
oro si è esaurito da tempo
immemorabile, e adesso
smetti di ascoltarmi e guarda
dinanzi a te l’
azione che eccede il suo stato
inerte e si trasforma in un atto
la cui gravità rasenta l’
assoluto, guarda le catene che,
in un gesto di rivolta, liberano le
caviglie del testimone che, con un
gesto incauto e malsano, costruisce
una scatola all’
interno della prima stazione
depositandovi il suo giaciglio,
ecco, non abbiamo certezze da
spacciare come dogmi, la verità è
che non ci apparteniamo,
eppure una manciata di limo
con cui aspergere l’
anatomia primaria non può che
generare l’
affetto o l’
affezione, una stretta di 
mano condita con un 
abbraccio o una coltellata nell’
addome per saggiare la consistenza del
fiotto di sangue, une maille à l’
endroit et une maille à l’
envers, c’
est ça, fatevene una
ragione, facciamocene una
ragione, è solo una
questione di sapidità, disse, 
ed ebbe perfino il coraggio di
ripeterlo ad ogni curva, ad
ogni giro intorno 
alla torre 
o alla torre,          
tendendo la mano all’
impaurita babele, perdendo, per
strada, la lingua, sputando
fonemi impronunciabili ma 
così accattivanti, così incattiviti
dalla durezza della nuova lingua,
quella acquisita 
nel passaggio
o nel passaggio, 
nel travaglio 
o nel travaglio
da un livello all’
altro, da una guaina all’
altra, e non c’
è guaio o guado che possa
guastare l’
impalcatura che sorregge la
struttura, la macchina procede, disse,
tirare dritto per la propria strada è
sintomo di giustezza, basta aggirare il
profilo dell’
ombra che anticipa il passo, basta
sputare sulla saliva ancora fresca
rilasciata dal solito viandante, basta
schivare i ragni che si immolano
offrendosi come pasto al serpente,
è questo quello che si legge sul 
libro delle lingue morte, di notte, 
intorno al primo fuoco, aspettando che la
solita sferzata d’
aria imponga il suo credo spegnendo il
fuoco e silenziando le voci del
passato, bisogna che io lo dica, e 
bisogna che tu ci creda: 
una volta dato per certo il
linguaggio dell’
imbonitore, una volta decifrata la
crassa risata della schiera dei 
buffoni di corte, una volta nascosto il
maltolto nell’
anfratto più oscuro della risibile
caverna, una volta destituite le
ombre dal loro presunto potere
salvifico, una volta esaurite 
tutte le carte del mazzo, non ci
resterà che godere della nostra
stessa inutilità, reiterando ad aeternum il
canto della nostra voce devastata da
secoli d’inutili congetture,
la désistance: che impareggiabile emozione!


(Enzo Campi - Da "To touch or not to touch" - Inedito 2021)

Enzo Campi – to touch or not to touch (la désistance)

ciò che conta, alla fine, è l’

indizio non recepito all’

inizio della saga, ciò che

conta, alla fine, è continuare a

essere in ritardo con tutto ciò che

ci definisce e sfinisce, per questo non

sarà certo una sorpresa se la

figura-ultima, ammesso e non

concesso che si possa identificare con

chiarezza una figura definitiva,

risulterà uguale

a quella figura che ci ha

catapultato in questa risibile saga a

delinquere

o a delinquere,

e che insiste

nella ricerca del punto più

consono da cui cominciare a

dipanare il filo, e dunque:

si estranea dal           

sorgivo, perde il contatto con l’

ultimità, sì, è distratto dallo

schermo, dalla

schermata che riproduce

impietosamente il suo

fallimento to touch or

not to touch, disse, ma

non è questo il problema, no,

semmai si tonifica se

viene sfiorato col guanto

che ripara

la rottura

o la rottura,

ma, così come è giusto che sia,

schiva il contatto come

per cercare un prodigio

a rinsaldare

o a rinsaldare,

perché evitando il

contatto ci si libera dall’

impulso di creare un precedente, è

una questione di indizi, ribadì

perentoriamente, ma non una

pura disseminazione quanto l’

indicizzazione degli indizi senza l’

avvento di palinsesti che

possano fuorviare l’

incedere

del flusso

o del flusso,

e si spiegò meglio: solo un

evento di segni,

segnali, luoghi, fisicità da

osservare senza che ci sia la

possibilità di guardare, ma con l’

eventualità di essere guardati da

ciò che si indica, da ciò che si

può solo indicare senza che ci sia la

possibilità di toccare o di farsi toccare,

une maille à l’

endroit et une maille à l’

envers, c’

est ça, fatevene una

ragione, facciamocene una

ragione, ci sono due stazioni tra

le quali consumare l’

erranza: la prima stazione e la

prima stazione, sempre la stessa e

sempre diversa, scegliendo ogni volta un

punto preciso in cui innestare il

chiodo, ma allora non c’

è movimento, disse, ma fu

subito smentito dall’

irruenza beffarda del coro degli

astanti: è nelle due stazioni, la

prima e la prima, che accade l’

evento, le parole si affiancano, poi

cadono, si affiancano di nuovo,

cadono di nuovo e si incolonnano,

e allora: l’

aperto, il chiuso, la radura, la

scatola, tutto fa brodo nel

brodo primordiale, la montagna sulla

cui vetta si respira l’

eternità, la pietra da scagliare contro l’

intruso, e quale che sia l’

invio il destinatario risulterà sempre assente, è

così che funziona, fin dalla notte dei tempi,

quando orde barbariche esplodevano i

suoni gutturali che incitavano alla

guerra, ed è proprio di questo che si

tratta: una guerra, santa o pagana che sia,

una guerra tra chi si eleva e chi cade stremato al

suolo, una guerra tra quelle sillabe che

in passato furono concubine e adesso

invece inneggiano la crasi, l’

urto violento, l’

incidente di percorso, il masso di granito sul

quale sfaldarsi, e l’

imbonitore lo sa, conosce i segreti della

scrittura, della finzione e recita a memoria il

solito peana: a visibili lacune,

a morìe di referenti privi di utensili

che possano corrodere il

bastone che ancora fende l’

aria nel solito gesto inconcluso

di un salto mai compiuto,

a incarti di rara densità

seppure escritti e evidenziati

passando dal tondo al corsivo,

a manipolazioni di senso

ottenute trasformando il

manufatto in un artefatto

da cui escludere l’

enigma a favore di una cosa ben

quadrata o squadrata nei

suoi poli antitetici che risale

la china camminando all’

indietro e che si volge ora a

destra ora a manca cercando

il coacervo di scarti in cui

stallarsi e riprendere fiato,

a tutto questo e molto altro

si devono le innocenze di fatto

o le indolenze di comodo,

è sempre una questione di corpo,

aggiunse dopo una lunga pausa,

un corpo che c’

è, che è presente, che non può

essere guardato ma si riflette nel

nostro sguardo, rimbalza lungo il

vettore della linea che collega, scollega,

compone, scompone l’

accettazione e il rifiuto, e che

quindi si nega accettandoci, ci

accetta negandosi, questo corpo

discinto e oltraggiato, questo

senso del corpo che è il corpo del

senso, questi sensi acuiti, sempre più

sottili e penetranti, che deflorano il

corpo rendendolo sensato, questo

corpo significante sì, ma disastrato,

perennemente sconvolto e coinvolto nella

sua sterile disseminazione, che acquista

senso nella sua stessa devastazione, è

un corpo che produce danni, disse, perché

non dice ma è detto dal suo dire, perché non

scrive ma è scritto dal suo scrivere, è un

corpo condizionato

dal desiderio

o dal desiderio,

e lo diceva, l’

ha detto, o ha fatto finta di farlo, ora,

in questo qui senza luogo, e mentre lo

diceva si allenava a destituirsi, come se

dovesse, per forza di cose, abdicare in

favore di un qualcuno o di un qualcosa,

ma quale uno e quale cosa potrebbero

essere degni di detenere il potere?

non è una questione di trasferimento dal

basso verso l’

alto, né dell’

accettazione di ciò che non si può

dominare, il vero potere è abitare la

distanza che ci separa dall’

ascolto della nostra stessa voce che

ci sbeffeggia raddoppiando gli specchi in

cui giocare con la sua stessa inutilità, si

ascoltava quindi, o almeno si illudeva di

farlo, si ascoltava, l’

ha detto, l’

ha urlato ai quattro venti, e noi

abbiamo creduto di sentirlo,

di leggerlo, ma

ascolta tu, adesso, ascoltami: non ci

sono sequenze inevase con cui farsi

scudo dalle sciabolate che gli vengono

inferte e dietro le quali fa finta di

nascondersi

o di nascondersi,

è questa la verità, è

questa la menzogna, è questa la

sospensione del giudizio, è questa l’

impossibilità di spacciarsi come

autore, come inquisitore, come

sciamano di una parola che non può

costruire nient’

altro che vacue sequenze di finti

cunei e risibili cilindri, così, tanto per

far rinvenire ciò che non è ancora

caduto sulla carta ma che è già stato

consumato da sempre e per sempre,

per questo non dirà mai di essere lui l’

autore, per questo vi indirizzerà

verso di me, per questo riverserà su

di me

le sue colpe

o le sue colpe,

la désistance, che meraviglia!

to touch or not to touch (la dèsistance) – © Enzo Campi, 2020

Enzo Campi & Sonia Caporossi – Le nostre (de)posizioni

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Il volume è disponibile per l’acquisto sul sito della casa editrice

Le nostre (de)posizioni

 

 

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Il titolo del libro, Le nostre (de)posizioni (Bonanno editore), ricalca e deforma il titolo di un volume di Corrado Costa (Le nostre posizioni). Perché Costa? Perché Costa rappresenta una delle eredità non raccolte dalla contemporaneità poetica emiliana, perché era anch’esso emiliano, perché è citato in epigrafe, perché diceva che: “ Il luogo della poesia torna sempre fuori, anche se il poeta è senza luogo”, ma è anche vero che il luogo del poeta si trova dove il poeta in quel determinato momento opera o, se preferite, fa opera-di-sé. Ed è anche per queste ragioni che, in quella che è la nostra delimitazione territoriale, i confini tra nativo e straniero dovrebbero essere definitivamente aboliti.

Si potrebbe dire, tanto per cominciare, che l’approccio di Enzo Campi sia francesista e quello di Sonia Caporossi sia germanista, almeno dal punto di vista filosofico. I lettori si troveranno di fronte a una prima parte più combinatoria e a una seconda parte più analitica. Ognuno dei due autori si getta nella visitazione di 10 poeti contemporanei che hanno qualcosa a che fare con l’Emilia Romagna, in qualità di nativi residenti, nativi deterritorializzati e stranieri adottati. Non sappiamo se si sentisse effettivamente il bisogno di un saggio che facesse il punto o  che disseminasse punti di vista e di ascolto ulteriori a ciò che viene «spacciato» come  poetico in Emilia Romagna. Fatto sta che quest’opera, almeno nelle intenzioni a monte, non intende colmare presunte lacune né tanto meno veicolare dogmi inalterabili  o concetti inappuntabili.

Si parte da due  punti fermi, forse gli unici dati di fatto dell’intera opera  (tutta l’opera verte difatti sull’attraversamento incondizionato del registro dei possibili): da un lato il rifiuto categorico di una scala oggettiva di valori e dall’altro lato la trans-territorialità.

In poesia, oggi come oggi, sarebbe deleterio nonché inutile redigere una classifica e operare in base a presunte differenze di valore. In poesia quindi non si dà oggettività, ma questo non vuol dire che si debba operare tenendo conto della propria soggettività, ovvero del proprio gradimento verso una o più poetiche specifiche. Difatti gli autori che vengono visitati dalle penne dei due critici sono stati scelti, tra i tanti papabili, solo per la possibilità che hanno le loro poetiche di ricondursi a una serie di concetti che vengono, di volta in volta, affrontati nel corso del lavoro.

Resta da precisare che gli autori non saranno trattati nello specifico di una determinata opera ma nell’insieme della loro produzione complessiva e, soprattutto, tenendo conto del loro modo di approcciarsi o di rendersi prossimi a quella che è l’unica costante a cui tutti i praticanti della scrittura dovrebbero relazionarsi, ovvero all’estensione, alla messa in atto di un gesto, in due sole parole: al conferimento di energia e tensione al testo. Il tutto all’insegna di una tecnica, di un metodo e quindi di una presunta maturità di linguaggio. Per queste (e altre) ragioni, in linea di massima,  non si è tenuto conto di autori sicuramente  meritevoli ma con all’attivo una sola opera o comunque poco più che esordienti.

Così come è giusto che sia, al di là dell’impostazione generale, essendo due le penne scriventi ci si troverà dinanzi a due diversi approcci e a due diverse focalizzazioni dei punti salienti da argomentare.

L’opera consta quindi di due parti. La prima parte  a cura di Enzo Campi tratta le poetiche di Alessandro Assiri, Giorgio Bonacini, Vito Bonito, Martina Campi, Mariangela Guatteri, Gian Ruggero Manzoni, Lorenzo Mari, Giusi Montali, Giancarlo Sissa, Maria Luisa Vezzali. La seconda parte, a cura di Sonia Caporossi, tratta le poetiche di Gian Maria Annovi, Vincenzo Bagnoli, Alberto Bertoni, Alessandro Brusa, Adriano Engelbrecht, Mariangela Gualtieri, Alberto Masala, Gabriella Montanari, Maria Pia Quintavalla, Sergio Rotino.

Animalìe e agiografie

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La Repubblica – Napoli

Sabato 7 dicembre 2019

 

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Felice e inaspettata coincidenza, quella di trovarmi insieme a Corrado Costa a una sola settimana dalla serata-evento per Costa che sto organizzando per Bologna in Lettere  [https://www.facebook.com/events/436359163710308/ ]. In compagnia di ottimi autori quali Karine Marcelle Arneodo /Nanni Cagnone, Alberto Vitacchio, Antonino Contiliano, Carla Bertola, il tutto per iniziativa di Eugenio Lucrezi, curatore della Bottega della Poesia di Repubblica-Napoli, a cui vanno i miei sinceri ringraziamenti.

 

 

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Colgo l’occasione per ricordarvi il prossimo evento

della nuova stagione di Bologna in Lettere dedicato a Corrado Costa

 

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Gesti d’aria

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Gesti d’aria

 

 

 

(Fiorì sfiorì l’ombra
in cui inabissai
la parvenza di luce
che il mio corpo
in un gesto d’aria
ancora offriva
all’incedere del suo
simulacro)

Si moltiplicano le domande per chi per
cosa o semplicemente perché ancora
persiste insiste la voglia sfrenata di
miniare a mo’ di ghirigoro la dissoluzione

della firma

e l’incoscienza della marca.
Ancora sui miei passi rinnovo il colpo
e tocco l’evanescenza delle voci che

cristallizzano l’aria

in cui sottrarsi al gesto.
Di poco in poco ritrapuntati e franti
riemergono inabissandosi i pulviscoli rubati
alla luce dell’altrui irriverenza.
Groviglio di linee estese le stesse diverse
conoscono e comprendono la pura elettricità
volta a sfaldare l’arteria e precipitano di testa
nella chōra austera dell’intervallo.
Carne al macello di traverso al seno:
il cuore si sfalda fibrillando sulla graticola.
Di foce in vece dell’intero sono io

ipso e fatto recto e verso: una bestia da soma

che s’involtola ed estrude il sorgivo fonema

in cui condursi al fondo.

 

Sia rianimato l’inanimato dall’algido fiato
in cui mescere il perlaceo succo della luce
che cade a perpendicolo e mi tace
mi dice di quell’aspra ligatura
che si consegna all’urto chiudendosi a riccio.

(Fiorì sfiorì la luce
in cui si stagliava
l’ombra sfrangiata
che il mio corpo
in un’incombenza d’aria
ancor mancò
al ritrarsi del suo
simulacro)

 

*

 

Una nota a latere.

 

 

 

fine, sia,
in fondo
al senza fondo

In un regime di luce. Puro sacrificio a consolidare.

Avanza la perdita, rinviene svenendo nella crudeltà primultima del sacrificio.

Essere-presso-di-sé sfuggendosi: traspropriazione della fine.

Si dirà: godo e sono, in quanto vengo e svengo nella ripetizione del gesto.

Arranca il sublime. Si disequilibria sull’orlo del baratro. Limite, reticolato, filo spinato. Propensione alla posizione, alla disposizione, alla deposizione. Solo una tentazione. Crollo. Libertà. Solo sfiorare e mai colpire.

E il rintocco a morto è pura inarrivabilità.

Quasi profetica, si rinnova l’aria in cui perdersi. Dispersione dei pulviscoli. Briciole dell’infinitesimo. Sforzo percettivo. Ancora un gesto.

In un regime d’aria. Impuro sacrificio a dissolvere.

Il cuore inscritto nell’occhio. Ma l’occhio è cieco. Cieca guida di ciechi. La cosa è cieca. Per questo si ripete nella differenza. Abulica iconoclastia dell’abbraccio che non tocca. Ancora una volta: solo sfiorare e mai colpire.

Cosa?

La cosa?

“Cosa è (una) cosa?”

La cosa stessa o il pensiero di una cosa che possa essere cosa?

Interrogazioni. Solo questo. E altro. Altro dal senso. Altro senso. In rapporto al sé e all’altro. Crudeltà e sacrificio.

Luci e sovresposizioni: l’urlo a delinquere!

Aria e sospensioni: il soffio a stagliare!

fine, sia,
in cima
all’immisurabile

 

 

© Enzo Campi, 2008-2009

 

 

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Enzo Campi – Una trama

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una trama

dissero per poi

ribadirlo con l’

aggiustamento del

tiro con l’

arco ben teso di-

steso magari

allettato la

messa a

fuoco mancata la

messa a

riposo del

guerriero l’

esproprio del

fallo l’

avvento del

folle l’

appercezione la

catena patemica il

patema d’

animo tutti i

segni gli

elementi per

costruire l’

ordito per

sciogliere i

nodi i grumi un

flebile raccordo l’

uscita facilitata dall’

irrisolta dimora

verso cosa verso

dove verso i

punti dismessi o

solo dispersi nel

mare di

sabbia che

impasta il

palato nello

stagno in cui è

bandito il

riflesso una

macchinazione

pensò ma fece l’

errore di

urlarlo ai

quattro venti e

poi si affiancò

silente alla

serie dei

succubi

rannicchiati in

posizione fetale

 

*

 

è

solo rancido il

cibo di

tutti es-

posto per

tutti e da

tutti negato è

solo sapido l’

umore del

sangue che

imperla il

pezzo di

carne messo a

riposo sull’

altare di

turno come

simbolo del

gioco del

giogo e l’

occhio

rivede nel

rivolo la

storia di

tutti il

sadico destino

che incombe la

mera aporia del

cogito ergo non

sarò mai

altro che

questo o

quello deposto

tra un libro

consunto e un

sasso di

fiume alla

stregua di un

giocattolo

passato di

moda e

abbandonato nel

sacco dell’

indifferenziato

 

 

(Enzo Campi, dal poema inedito Sequenze per cunei e cilindri)

 

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Enzo Campi – La coscienza e il desiderio. Ulisse e l’idea del viaggio

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Enzo Campi

La coscienza e il desiderio. Ulisse e l’idea del viaggio 
Uno sguardo su Hypnerotomachia Ulixis di Sonia Caporossi (Prefazione di Anna Maria Curci, Carteggi Letterari, 2019)

Hypnerotomachia Ulixis è un testo che pretende, anche e soprattutto, una lettura ad alta voce. E non solo, non basta una semplice dizione, il testo pretende un diktat a scansione veloce, quasi ribattuto in crescendo ad ogni passaggio, come per sottolineare l’idea di un accumulo progressivo di elementi a partire dal quale l’autrice costruisce la struttura del viaggio. Perché qui stiamo parlando proprio di un viaggio che rinvia palesemente alla Hypnerotomachia Poliphili attribuita a Francesco Colonna,[1] ovvero a quel “combattimento amoroso in sogno” che fu dato alle stampe da Aldo Manuzio agli albori del cinquecento. Un viaggio onirico dove Polifilo si incontra e scontra con una miriade di personaggi allegorici.
Sulla scorta di Wilhelm von Humboldt sembra che la nostra autrice sia orientata a considerare la Bildung (nell’accezione di auto-educazione al sapere) come un processo dinamico in divenire che si dà attraverso il fissaggio archetipico di figure volte a sconfiggere la chiusura del testo, ad oltrepassare quelli che Kristeva definiva “gli stati limite del linguaggio e della letteratura”.[2] Tutto si basa sull’intertestualità (una certa predisposizione alla musicalità del dettato, i continui richiami e rinvii, le citazioni-emblema o medaglie verbali, l’innesto di figure mitiche nella quotidianità, le pressoché continue digressioni sono dispositivi ricorrenti nella letteratura caporossiana), ovvero su quel procedimento che, sempre secondo Kristeva, può aiutare “la teoria letteraria a fare uscire la comprensione di un testo dalla propria chiusura, per inserirla in un quadro più ampio, che includa al contempo la storia di altri testi e ottiche diverse”. Per far sì che accada una cosa di questo tipo, niente è più adatto del viaggio o, se preferite, dell’idea del viaggio, un’idea che Caporossi sviluppa estrapolando da testi pre-esistenti quei personaggi che – innestati in un contesto altro – possano estendere e amplificare la propria esistenza letteraria.
Ma in cosa consiste questo viaggio?

continua a leggere qui

Enzo Campi, Uno sguardo su “Hypnerotomachia Ulixis” di Sonia Caporossi

 

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